Tempo e luce di un fotografo di strada: La “Bella Fotografia” di Tano D’Amico

Pochi fotografi hanno saputo rappresentare come Tano D’Amico la bellezza degli ultimi. Quella bellezza che sfugge ai più e che solo occhi e menti attente riescono a cogliere. E che solo i grandi fotografi riescono a rendere evidente. Tano D’Amico ha fotografato la bellezza di un ceto nuovo, che non c’era mai stato, comparso all’improvviso a rivendicare il suo diritto di esistere, con una consapevolezza nuova che la faceva finita con la cultura dell’obbedienza, dei ruoli, della passività.

Li ha seguiti nell’unico palcoscenico in grado di accoglierli: le strade e le piazze. Con loro ha condiviso tutto: fede politica, amicizie, amori, sconfitte, orgoglio, illusioni. Il suo bianco e nero asciutto e tagliente resterà tatuato nelle rughe della storia per raccontare agli altri un periodo che, già ora, sfuma nella nebbia dei ricordi.

“Forse — scrive — la mia generazione doveva nascere solo per questo. Forse solo per questo verrà ricordata. Per avere accompagnato sulla soglia della storia quelli che nella storia non erano mai entrati. Quelli che la storia l’hanno sempre subita. Quelli che la storia non aveva mai degnato di uno sguardo. Quelli che anche i testi sacri della sinistra disprezzavano”.

Questa la sintesi della premessa del nuovo libro di Tano D’Amico “DI COSA SONO FATTI I RICORDI, Tempo e luce di un fotografo di strada” che l’autore ha presentato a Cagliari al festival UNA DOMU PO CASTEDDU: politica, musica e socialità verso la domu che verrà. Il libro è stato un pretesto per una conversazione con uno dei più lucidi testimoni di quelle istanze di libertà e di giustizia sociale che la cultura del conformismo ha depotenziato e sconfitto.

Questa sconfitta viene lucidamente analizzata nel libro da Tano in 63 poetiche e amare lettere personali alla società, accompagnate da altrettante indimenticabili immagini. In un tempo che va dagli anni ’70 con l’assassinio di Giorgiana Masi al G8 di Genova e l’uccisione di Carlo Giuliani, passando per la Palestina e i campi Rom, il legame tra fotografia e testimonianza è inequivocabile. Il tempo, che prima o poi s’accorda con quello della vita, scandisce i ricordi. La luce li fissa nella pellicola e nella memoria illuminando, con i suoi squarci, nuovi e più ragionati percorsi di speranza, vie di fuga dall’omologazione che tutto sterilizza e spegne.

Tano D’Amico indica impervi sentieri di coerenza lontani dalle comode strade dei vincitori, parole diverse dalla lingua dominante, ideali antichi che non passano di moda. Per potersi sempre guardare allo specchio senza vergogna. Per ricordarci che quelli furono anni ricchi di eccessi ma anche di altri ingredienti di cui oggi si sente un disperato bisogno come impegno civile, solidarietà, generosità e, appunto, speranza.

La disponibilità di Tano D’Amico ci consente questa breve intervista dove cerchiamo di focalizzare alcuni aspetti della fotografia passata ed attuale.

Cosa cerchi nella fotografia? 

Me lo sono chiesto tante volte. E’ il modo per dire la mia. Ho visto che con la fotografia si possono dire molte cose e tante immagini vivono di vita propria, camminano, rappresentano. Un critico che mi vuole bene disse una volta: “Se Tano avesse detto con le parole quello che ha detto con le immagini, sarebbe in manicomio o in carcere”.

Pensi quindi che la fotografia sia ancora uno strumento valido per rappresentare il mondo?

Mah il mondo non so, sicuramente per rappresentare l’universo interiore di chi riesce a  declinarla correttamente.

Il tuo libro è un diario di sconfitte, un resoconto di normalizzazione che non ha risparmiato nemmeno la fotografia

La storia ha origini antiche. Fu il nazismo ad accorgersi che la potenza delle immagini era superiore a quella delle parole, più facilmente manipolabili. Il nazismo piegò le immagini per attutirne l’impatto, disinnescare la carica espressiva, omologare il controllo dell’immagine a quello già attuato con la parola scritta. Il carnefice fu Goebbels a che incaricò le SS di vigilare affinché le immagini non andassero al di là del loro senso letterale.

Quindi la tecnica è stata adottata anche in Italia. E’ anche così che si è prodotta questa grande anestesia in cui è caduto il paese?

La tecnica è usata in tutto il mondo. Sui giornali troviamo le stesse immagini che abbiamo visto sui telegiornali la sera prima. E nessuna foto va oltre il suo significato letterale. Fotografie da consumare subito e da dimenticare immediatamente. Poi basta vedere i grandi premi internazionali e le immagini premiate per capire che i principi di Goebbels sono ancora rispettati. In questo il nazismo, sconfitto sui campi di battaglia, ha vinto.

Chi si occupa oggi, in Italia, degli ultimi? i nostri fotografi vanno in Palestina o in Siria come se qui non ci fosse niente di socialmente rilevante da fotografare…

Spesso seguono le ONG, che troppe volte finiscono per diventare la legittimazione di molti regimi. Ci sono strade in Palestina vietate a tutti tranne ai cittadini “dominanti” e alle ONG. Per un fotografo significa avere accesso a luoghi proibiti, avere supporto, protezione.

Magari c’è anche l’ambizione di accreditarsi, con temi molto conosciuti, presso i grandi premi internazionali, trampolino di lancio dei fotografi

Anche. Fotografando le miserie nostrane è più difficile destare l’attenzione dei giurati. Io lo dico spesso a qualche mio studente che mi dice “vado in Tibet”: perché dico io, non vai a Centocelle, dove tanti problemi sono nascosti da una patina di apparente normalità.

C’è una produzione smisurata di immagini con cui tutti fotografano qualunque momento della propria vita. Questo non ci fa perdere di vista la qualità?

Come in un autobus pieno tu riesci ad individuare subito un volto amico o amato, così fra tante immagini, quella che ti interessa o che ti sconvolge la vedi subito. Il problema è che queste immagini sono sempre più rare. Il risultato è comunque l’appiattimento.

Ecco, volevo arrivare qui: da qualche anno gli editori promuovono, incoraggiano, pubblicano immagini di cronaca fatte da dilettanti con risultati qualitativi discutibili

Si tratta di strategie commerciali. Chiamando a raccolta tutti i lettori li rendi partecipi della cronaca, vendi più copie. Resta comunque il fatto che qualunque strumento usato correttamente e con un linguaggio consapevole produce cose interessanti.

Come definiresti la tua fotografia?

Non amo la categorizzazione dei generi fotografici. Per me ci sono due soli generi: Una, (un po’ piccola) delle “belle immagini” e una (enorme) delle brutte fotografie. Si possono suscitare emozioni con la fotografia di moda o fotografando una conchiglia o un cavolo, come fece Edgar Weston.

Non resta che definire la “Bella Fotografia”!

Per me una bella foto è semplicemente quella che ti fa fare un pensiero, che ti fa provare un’emozione, che ti fa ricordare qualcosa che senza quella foto avresti dimenticato.

Semplice no? Ma ora si è fatto tardi e mi devo accomiatare a malincuore da quest’uomo cordiale, in pace con la vita, ricco di quel fascino antico che deriva da un fardello di ricordi che sono il suo tesoro, la sua lucida e scomoda testimonianza di un’epoca vissuta con orgoglio e passione.

Vado via e penso ai giorni nostri, ai tanti che si arrendono ancor prima di affrontare il mare della vita. Naufraghi in un porto. Mi rimbomba nella testa Giorgio Gaber che canta “Non vedo nessuno che s’incazza fra tutti gli assuefatti di questa nuova razza […]” e alla sua amara conclusione:

La mia generazione ha visto

le strade e le piazze gremite di gente appassionata

sicura di ridare un senso alla propria vita

possiamo raccontarlo ai figli senza alcun rimorso 

la mia generazione ha perso. 

Ma al pessimismo si oppone la frase di commiato di Tano: «Io ho ancora il cuore pieno di speranze. E ci saranno sempre immagini difficili da addomesticare». Ecco, se fosse proprio la Bella Fotografia a rimettere in “Movimento” le coscienze anestetizzate? Magari senza pretendere di cambiare il mondo, ma per provare a renderlo un posto dignitoso per tutti.

Enrico Pinna

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