Sant’Elia vista da un barattolo. Fotografia stenopeica al Lazzaretto di Cagliari

Prendete un barattolo metallico di caffè o di pomodori pelati dotato di tappo ermetico. Verniciatelo di nero all’interno e praticate un minuscolo foro sul fondo. Sistemate una pellicola sul coperchio (al buio, mi raccomando) e sigillate il tutto con del nastro adesivo. Avete in mano la macchina fotografica più semplice e (di questi tempi) più rivoluzionaria che esista.

È un apparecchio a foro stenopeico (Pinhole per gli anglosassoni) erede della camera obscura utilizzata dai pittori già nel medioevo. Niente obiettivo, niente monitor, niente misurazione della luce, niente gadgets digitali, un solo colpo in canna. Più essenziale di così!

Proprio la sua semplicità ne fa uno strumento complicato e rivoluzionario perché necessita, per il suo buon funzionamento, di un ingrediente per niente scontato nell’armamentario di un fotografo: la creatività pura, sfrondata da qualunque aiuto tecnologico.

Il pinhole, utilizzato con eccelsi risultati da artisti di fama come Paolo Gioli, Beppe Bolchi, Marko Vogrič, è anche una tecnica di grande valore didattico, che riesce a rendere viva quella consapevolezza all’immagine necessaria in ogni percorso formativo sulle arti visive.

Non a caso la fotografia stenopeica è stata l’oggetto del corso tenuto a Cagliari da Luisa Siddi, Luca De Melis ed Erik Chevalier con il patrocinio del Lazzaretto di Sant’Elia.

«Abbiamo organizzato un corso a basso costo — dice Luca De Melis — per persone di ogni età prescindendo dal possesso di qualsiasi attrezzatura fotografica. Con il foro stenopeico ognuno ha costruito la propria fotocamera, acquisendo padronanza del processo fisico di costruzione dell’immagine.»

«Era anche un pretesto — aggiunge Luisa Siddi — per sperimentare un mezzo che, nonostante la sua povertà tecnica, stimola la creatività perché insegna a lavorare con strumenti minimi e consente di ottenere contenuti semplici ma di notevole forza visiva.»

I risultati (sorprendenti) di questo corso saranno in mostra al Lazzaretto nella collettiva “The hole, Sant’Elia vista da un barattolo”, visitabile dal 24 al 29 settembre.
«Una mostra — sottolineano i docenti — che, nonostante mescoli immagini di 55 persone di età, cultura e sesso diversi mostra un filo conduttore molto definito, segno di un percorso di apprendimento collettivo molto efficace.»

Effettivamente le immagini denotano chiaramente i segni della ricerca creativa omogenea, a volte acerba, talvolta già matura. Tutti lasciano intravvedere la ricerca di quella trasgressività visiva che, oggi, si raggiunge ritornando al nocciolo della fotografia, a quella sistematica semplificazione che significa liberarsi da tecnicismi ed automatismi, da orpelli culturali fuorvianti ed estetizzanti, per ritrovare la vera sostanza dell’immagine.

Ma la fotografia stenopeica non è solo trasgressione visiva ma, anche, indipendenza interpretativa. Significa entrare in sintonia con il proprio vocabolario personale della visione, quello più arcaico ed incontaminato, necessariamente lontano dalle omologanti intermediazioni tecnologiche odierne.

In tempi di foto a raffica rubate, la fotografia stenopeica è un omaggio alla lentezza, a quella costruzione di simboli visivi meditata, attenta e consapevole, alla ricerca dell’essenziale che si fa essenza.

Allora, magicamente, non sarà il fotografo ad addentrarsi nei luoghi, ma saranno i luoghi ad entrare, attraverso quel piccolo foro, nell’immagine per tracciare indelebilmente i propri segni.

Il fotografo dovrà solo assecondare il processo, scegliendo, nel proprio immaginario visivo, quale angolo di realtà imprigionare nel suo barattolo, per riscoprirlo dopo lo sviluppo ed accogliere questo frammento visivo nel proprio universo simbolico.

Tutto qui. In fondo — lo diceva il grande Mario Giacomelli — la fotografia è una cosa semplice. A condizione di avere qualcosa da dire.

Enrico Pinna

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