Marco Pantani, dieci anni dopo. Il linciaggio di un campione

Nove anni fa moriva Marco Pantani, il ‘pirata’, uno dei più grandi campioni della storia del ciclismo mondiale. Un mito come Coppi, Bartali, Merckx e Gimondi.
Per me, che l’avevo brevemente conosciuto era anche di più. L’avevo tifato con passione perché rappresentava l’orgoglio dell’italiano medio, giunto al successo con la sua passione e determinazione.
Correva da solo contro tutti, ma sapeva essere anche buon compagno di squadra, solidale con gli altri ciclisti ma capace di imprese epiche con le sue sole forze.
Era attaccato e affettuoso ad amici fedeli e alla propria famiglia e già questo me lo faceva amare.
Poi, mentre già vivevo da anni negli USA (patria degli scandali mangia-eroi) , Pantani fu trovato morto per overdose di cocaina.
Nel frattempo il suo mito era stato smitizzato e gettato nel fango dalla cosiddetta ‘giustizia sportiva’ che lo aveva bollato come atleta dopato, dando il via al quel meccanismo di cannibalismo mediatico, che sbrana appunto i suoi eroi.
La notizia mi scosse enormemente, mi sentii defraudato di un sogno e mi domandai cosa fosse veramente successo.
Le risposte le ho avute la settimana scorsa,quando ho visto che a Cagliari, al Teatro Massimo c’era uno spettacolo teatrale a lui dedicato. Sono voluto subito andare a vederlo (in bicicletta ovviamente) ed ho capito molte cose che prima non sapevo.
Inizialmente ho partecipato ad un incontro-dibattito col regista Marco Martinelli, ben coordinato dall’amico giornalista Walter Porcedda, poi ho visto lo spettacolo che ben ricostruiva la sua vita, i suoi trionfi, la sua tragedia di quel 5 Giugno ’99 a Madonna di Campiglio quano fu arrestato come se fosse un criminale.
Nella ricostruzione teatrale, ben mixata con le immagini televisive del tempo, veniva sottolineata la crudeltà premeditata che ha condannato Marco Pantani.
Mi ha colpito la precisa determinazione degli stessi vertici federali (che si volevano lavare la coscienza) sulle pressioni del vendicativo patron del team concorrente, che miravano a colpire il vertice del ciclismo, rappresentato da Pantani, in maniera eclatante e violenta.
L’eventuale assunzione di Epo, una prassi allora diffusa tra ‘tutti’ i ciclisti, ai tempi non era ancora chiara.
Dopo sei mesi dal blitz su Pantani, quella norma sulla presenza di ematocitro nel sangue fu variata e sicuramente non fu determinante nella conquista dei sui successi.
Fu determinante invece, quella ingiusta condanna, nella psiche e nella dignità di Pantani.
Una volta defraudato del suo sport e della sua immagine, Pantani cadde in depressione e cominciò veramente a prendere l’altra ‘sostanza’ che l’ha portato alla tomba.
Io Marco Pantani lo conobbi, come detto, in una brevissima giornata di inizio Dicembre 1998, l’anno di gloria in cui vinse Giro e Tour.
Feci uno scoop giornalistico.
Amici di Milano mi avvisarono che stavano venendo in Sardegna per girare gli spot della Citroen vicino a Chia con Pantani come testimonial. Avvisai l’allora caporedattore centrale dell’Unione Paolo Figus che mi assegnò il pezzo. Ero l’unico giornalista che lo sapesse.
Andai la mattina all’alba alla spiaggia di Tuarredda e aspettai per tre ore il passaggio della troupe e di Pantani, per fotografarlo.
Mi fu impedito di stare sul luogo e dopo tante insistenze mi concessero dieci minuti di intervista a Pantani a mezzogiorno nell’intervallo delle riprese.
Attesi quell’intervista nella spiaggia di Piscinnì insieme alle mucche. Arrivarono le troupe ed ecco lui, simpatico e sorridente che mangiava un panino insieme alle maestranze. Finalmente mi venne presentato, lo fotografai in esclusiva e parlammo per cinque minuti senza ulteriori barriere. Mi conquistò quella dolcezza, quella serenità, quella naturalezza di Pantani, dote rara di chi sa essere paziente e professionale in ogni circostanza, senza mai assumere atteggiamenti da divo neanche con l’ultimo degli operai. Realizzai lo scoop e fu anche l’unica volta che L’ Unione Sarda mise un mio pezzo in prima pagina.
Tornando a Pantani e allo spettacolo teatrale che riqualifica e rende giustizia al suo dramma. La sua storia e il suo destino hanno molte attinenze con quelle del povero Enzo Tortora.
Rimango amareggiato dalla vicenda Pantani e mi domando, e vi domando:
1) Ma non siamo tutti drogati da questa società e questo sistema di giustizia e moralismo che a volte, per il cervello malato dei suoi accusatori finisce per fa scoppiare il cervello dell’accusato e manda in rovina anche persone innocenti ?
2) Perché colpire con clamore solo il vertice di uno sport, calpestando la dignità umana di un uomo libero, anziché prendere provvedimenti equi e adeguati verso tutti i ciclisti e tutti i dirigenti e medici che sono gli organi di controllo degli atleti stessi ?
In attesa di risposte, vi invito a vedere e a capire lo spettacolo su Pantani e a chiarirvi le idee su come fosse lui come atleta e come uomo: un grande !
Che ha vinto da solo e ha poi pagato per tutti.
Pietro Porcella
 

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