La penisola iberica, e la Spagna in particolare, è ancora terra di lupi. Nelle sconfinate aree montagnose del Paese, là dove la presenza umana si fa sporadica a misura che si infittiscono i boschi di querce e larici, i veri protagonisti dello scenario naturale sono gli animali selvatici: orsi, gufi reali, cinghiali, aquile, gipeti barbuti, lontre, galli cedroni, stambecchi, camosci e lupi. Branchi di lupi liberi e sfuggenti, che rastrellano i crinali dei monti in cerca di carne viva di cui alimentarsi.
Di storie di lupi, in terra di Spagna, se ne raccontano tante. Alcune tremendamente crudeli, altre talmente commoventi e straordinarie da non sembrare neanche reali, relegate da sempre più al mondo delle favole che a quello dei fatti veritieri e comprovati.
Tra le storie del primo tipo, sono numerose le cronache antiche che parlano di attacchi mortali ai danni di adulti e bambini. I pellegrini che, soprattutto nel Medioevo, perdevano la rotta sicura del Camino de Santiago, magari per cercare riparo durante le inclementi nevicate del gelido nord iberico, potevano facilmente cadere nelle fauci dei lupi che ne avevano fiutato la paura e la vulnerabilità. E a finire il pellegrinaggio a Santiago de Compostela si recavano solo le loro anime penitenti, giacché il poco che restava di quei corpi dilaniati rimaneva ad ingrassare i campi delle Asturie, di León o dei Paesi Baschi.
Ma, a controbilanciare le tante efferatezze compiute dai lupi, basti ricordare un episodio realmente eccezionale, della cui veridicità può testimoniare il protagonista stesso della storia, il signor Marcos Rodríguez Pantoja che, seppur anziano, gode di buona salute ed è ancora in vita; anzi, è proprio ai lupi che deve la sua vita. Marcos aveva solo sette anni quando i suoi genitori, poverissimi, lo vendettero ad un ricco proprietario terriero, il quale lo affidò ad un pastore suo servo per aiutarlo a custodire un gregge di capre, nel folto della Sierra Morena di Cordoba. Poco più tardi, però, il vecchio pastore morì d’improvviso e Marcos rimase solo e indifeso a lottare contro la fame e per la sopravvivenza.
Marcos era un bambino, un cucciolo d’uomo, e come tale trovò compagnia in altri cuccioli, di canide. Finché la madre di quei lupacchiotti decise di poter essere madre anche del bambino, e condividere con lui la carne che portava per gli altri. Da quel momento, e fino al giorno in cui la Guardia Civil si ricordò di lui e andò a riscattarlo con la forza (quando aveva già 19 anni, per mandarlo alla leva militare obbligatoria), Marcos fece parte del branco, cacciando, dormendo e vivendo insieme ai lupi e grazie ai lupi. Caso unico al mondo – se escludiamo il protagonista del “Libro della giungla” di Kipling – di bambino ritornato alla “civiltà”, riacquistando la parola, vestendosi non più di pelli e reimparando a mangiare con le posate, malgrado avesse seguito negli ultimi 12 anni il galateo delle fiere selvatiche.
Da tempi immemorabili, dunque, i popoli delle regioni più remote della Spagna hanno avuto a che fare con i lupi, venire a patti taciti con essi, riuscire a conviverci, trovare il modo di proteggere il bestiame domestico senza sterminare un’intera specie di predatori. Proprio come gli abitanti delle montagne di León, da sempre covo di orsi e lupi, dove ho avuto modo di recarmi durante queste ultime vacanze pasquali. Chi ha percorso i sentieri di campagna o le viuzze dei villaggi che punteggiano quelle valli, non può non essere incappato nell’abbaiare grave e minaccioso di autentici molossi: sono i mastini leonesi, una razza di cani enormi, possenti e fieri, che incutono paura e rispetto a uomini e animali, lupi compresi.
È infatti con questi cani, corazzati con appositi collari chiodati che ne tutelano trachea e arterie vitali, che i pastori di León, asturiani o pirenaici, riuscivano e riescono a tenere lontani i lupi dalle loro greggi. Più dei recinti elettrici, meglio dei bocconi avvelenati o delle doppiette, sono i grossi mastini, appositamente selezionati da generazioni e generazioni, a rendere meno appetibili pecore e vitelli ai loro indomiti cugini.
Mi chiedo: non è questo, a ben guardare, un modello esemplare di ciò che dovrebbe essere una società civile? Una società, cioè, che posta davanti ad un problema (i lupi), non si adopera per eradicarlo con incontrovertibili “soluzioni finali”, ma tale problema identifica, assume, anticipa e contiene usando armi dissuasive (i mastini) proprie dei codici comportamentali del nemico.
In una società civile, infatti, la diversità è contemplata e non annientata, e la convivenza si raggiunge a base di compromessi e non applicando una giustizia sommaria. In una società civile, il pastore addestra il mastino per difendere gli agnelli, e persino le pecore nere, dai lupi. Perché a nessun pastore, in una società civile, verrebbe in mente di aizzare i cani contro il proprio gregge, visto che la sua missione è di curarlo e preservarlo poiché, senza gregge, un pastore non si può nemmeno definire tale.
Fuori metafora, in una società civile non è concepibile che lo Stato mandi i propri militari a massacrare e torturare dei cittadini innocenti. E quando questo accade, che non soltanto i responsabili di tali barbarità rimangano impuniti, ma vengano addirittura premiati politicamente, concedendogli incarichi migliori. Così come non è accettabile che il sistema giudiziario non arrivi a condannare i colpevoli, che chi guida il Paese non si indigni pubblicamente, che a distanza di 14 anni debba essere la Corte europea ai diritti umani a chiamare le cose col loro nome.
In una società civile, ogni riferimento a fatti o persone della scuola Diaz, della caserma di Bolzaneto e del G-8 di Genova del 2001 è puramente casuale, in una società civile…
Andrea Ortu
Intervento pubblicato anche su https://quadernispagnoli.wordpress.com/