L’ideologo di Podemos? Un sardo

Le ultime elezioni autonomistiche spagnole, celebratesi in Andalusia il 22 marzo scorso, l’hanno attestata come la terza forza politica della regione, in linea con le tendenze registrate dalle intenzioni di voto nazionali, sostenuta da quasi il 15% dei votanti. Malgrado non passi giorno senza che i principali mezzi di comunicazione di massa (quelli pubblici, filogovernativi, e quelli privati, di ascendenza socialista o popolare) non ne stigmatizzino l’operato e le intenzioni, il partito conosciuto col nome di Podemos continua a mantenere il consenso di una larga fetta di popolazione.

Ciò che sorprende gli analisti politici e l’opinione pubblica di mezzo mondo, è la rapidissima ascesa del movimento guidato da Pablo Iglesias, che già dalla prima tornata elettorale alle europee del 2014 è riuscito ad ottenere ben 1,2 milioni di voti e 5 seggi in parlamento.

Gli studi che provano a decifrare le ragioni del successo di Podemos ormai si sprecano, e non sto qui ad elencarli. Quello che però vorrei rimarcare – per esserne stato testimone oculare a partire dal maggio del 2011 qui a Madrid – , è che Podemos non è nato dal nulla, semmai è stato il naturale sbocco a quello straordinario episodio di partecipazione democratica conosciuto in Spagna come 15-M (in riferimento alla data della sua costituzione), o movimento degli Indignados. Il quale, non essendosi evoluto allora in azione politica concreta, si è andato negli anni affievolendo (pur mantenendo sino ad oggi una presenza attiva in iniziative assembleari di quartiere), per rinvigorirsi e convergere ora su Podemos, abile nel riproporre quelle stesse rivendicazioni politiche e sociali emerse nel 2011.

L’altro aspetto saliente di Podemos, a differenza di altri movimenti o partiti di recente formazione (come, ad esempio, il Movimento 5 Stelle in Italia), è che questo si appoggia su solidissime basi teoriche e consolidate dottrine politiche. E se dalle cattedre della facoltà di scienze politiche dell’Università Complutense di Madrid provengono alcuni dei principali leader e teorici del partito (Pablo Iglesias, per l’appunto, ma anche Juan Carlos Monedero o Íñigo Errejón), è a un sardo di umili origini che si deve il merito di aver concepito la struttura ideologica portante di tale artificio politico.

Un sardo poco conosciuto in Spagna, e ahimè ormai abbastanza ignorato anche in Italia, ma che in America Latina è attualmente tra i politologi più studiati e apprezzati di sempre: Antonio Gramsci. Proprio lui, filtrato da ricercatori postmarxisti del calibro di Ernesto Laclau (e, prima ancora, materia di approfondimento per gli intellettuali argentini Héctor Agosti e José Aricó, o elemento ispiratore del Simposio Internazionale tenutosi a Santiago del Cile nel 1987), è entrato a pieno titolo nel programma di Podemos, e per questo motivo viene citato in continuazione dal suo nucleo dirigente.

In particolare, tra gli elementi del gramscismo che piacciono maggiormente a Iglesias e compagni, c’è l’idea che la rivoluzione sia un obiettivo dinamico, in continua transformazione, e che tale rivoluzione si debba adattare alla società contemporanea in modo trasversale, implicando tutte le classi sociali, senza cadere nella trappola della contrapposizione tra queste.

Altro punto di contatto, sta nella necessità di formare una cultura popolare (opposta a quella borghese ufficiale), per far nascere nel popolo l’esigenza della rivoluzione e di cambiamenti sociali, come logiche conseguenze. A favorire il processo di creazione dei nuovi valori culturali, etici e morali sono chiamati gli intellettuali che, nel caso specifico di Podemos, agiscono coinvolgendo ed educando la base elettorale tramite metodi assembleari e partecipativi innovativi, in gran parte spinti attraverso le reti sociali.

La rivalutazione di Gramsci in terra di Spagna è già di per sé un fatto di notevole importanza, che ci dovrebbe far riflettere. In primo luogo perché conferma quanto imprescindibile sia l’eredità che l’intellettuale ci ha lasciato, e quanto poco ne siamo coscienti. E poi perché ci dimostra che le periferie possono apportare idee nuove e concetti stimolanti nello stagnante panorama politico tradizionale. Antonio Gramsci, infatti, se è riuscito a penetrare nell’immaginario di una certa classe politica e culturale latinoamericana, è perché ha affrontato la questione meridionale come un problema specifico di una realtà periferica, vittima degli strascichi del colonialismo centralizzante (militare, culturale o economico).

O quando parla di un occidente centrale contrapposto ad un occidente periferico. La Sardegna, sua terra d’origine, era – ed è – periferia dell’Italia, così come i Paesi latinoamericani sono stati – e in parte sono – ai margini di un occidente dominato dalle grandi potenze coloniali. In questo sta il riconoscersi dgli analisti Argentini, Brasiliani, Messicani o Cileni nelle teorie gramsciane, e su questo fanno leva gli ideologi di Podemos (o quelli di Syriza in Grecia), quando denunciano il sordo centralismo dell’Unione Europea nei riguardi della periferica Spagna, rivendicando un maggiore protagonismo e una partecipazione più determinante nelle decisioni politiche ed economiche comunitarie.

Se una cosa positiva ha portato la globalizzazione, è che ogni punto del mondo, persino il più piccolo e isolato, può essere per una volta anche il suo centro. Così, non deve stupire che un Antonio Gramsci da Ghilarza sia portato alla ribalta internazionale da intellettuali d’oltre oceano o da uno dei partiti di maggior successo della Spagna. Sperando che, quando di questo in Sardegna ci accorgeremo, riusciremo noi rassegnati isolani periferici a saperci meno isolati, se non anche al centro del mondo, per un momento.

Andrea Ortu

Intervento pubblicato anche su https://quadernispagnoli.wordpress.com/

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