A un mese dalla conclusione della seconda edizione di Sant’Arte, il festival di arti visive e performative nato da un’idea di Pinuccio Sciola, abbiamo voluto approfondire la conoscenza di Ivana Pinna (nella foto Facebook). Il suo ruolo è stato cardinale, non solo per la sua presenza in qualità di artista, ma anche come catalizzatore del progetto Ivynode che, insieme alla Fondazione Sciola e al sostegno di ‘Terra vivente’, ha organizzato il simposio ‘Su Bixinau’. È stata una tre giorni di incontri e dibattiti, con dodici ospiti internazionali, tra cui la Pinna, la cui esperienza si è coronata nella residenza artistica, incentrata sul tema del vicinato e sperimentata a Nurri, nel Sarcidano, dal 3 al 24 giugno.
L’idea di residenza artistica nasce agli inizi del Novecento e si afferma negli anni Sessanta al fine di soddisfare da un lato la necessità di isolamento per riflettere sulla propria individualità e dall’altro di incontrare realtà particolari, facendo della conoscenza reciproca un mezzo di riavvicinamento fra arte e comunità. Non a caso è nel 1968 che San Sperate si trasforma architettonicamente, socialmente e culturalmente diventando un centro le cui strade sono continuo scenario di produzione di contenuti culturali e che, ad oggi, ospita nello spazio pubblico oltre 500 opere tra murales, sculture e installazioni.
La rassegna, che ha abbracciato molteplici linguaggi espressivi, non si è limitata ad essere una manifestazione artistica, ma è anche festival dalla partecipazione condivisa che, seguendo le scuole di pensiero antiaccademiche, ha portato l’arte in strada, fuori dai musei, dalle gallerie, dai teatri, dai libri. In una chiacchierata con la Pinna – che a Nurri, paese di 2.500 abitanti è nata – scopriamo dunque come l’arte possa essere un linguaggio che favorisce lo sviluppo di un pensiero critico, lo scambio tra le persone e rende consapevoli e liberi da confini geografici e mentali.
Lei ha vissuto in Inghilterra, Belgio, Francia, Germania, Cina, Svizzera, Spagna. Ha ritrovato qualcosa del suo territorio in ognuno di questi luoghi, o c’è qualcosa a cui è particolarmente legata che l’ha indistintamente accompagnata?
Ho vissuto stabilmente a Nurri fino ai 19 anni ma ho sempre avuto un forte desiderio di lasciare il mio paese natale per scoprire cosa c’era fuori. Mi hanno sempre affascinato le differenze ed è anche grazie a questo approccio che ho potuto riscoprire il luogo in cui sono nata guardandolo con occhi diversi, come se non l’avessi mai visto.
Come è nato il progetto Ivynode?
Il progetto prende forma a Barcellona, in Catalogna, e gode del forte appoggio di Thomas Keis (artista multidisciplinare nato in Germania), di amici artisti internazionali, partners e professionisti che operano in diverse parti del mondo. Ha un carattere relazionale e transdisciplinare, e il termine stesso ‘node’ esprime un punto di passaggio, di intersezione, come un crocevia in diverse direzioni. È un progetto ancora giovane, flessibile e in fase di evoluzione.
Ivynode ha come obiettivo la promozione della cultura e dell’innovazione anche all’interno di piccole comunità territoriali. Nelle sue numerose esperienze all’estero è stata affascinata maggiormente dalle grandi città o da piccoli centri, ai margini delle metropoli?
Quando lasciai la Sardegna ero affascinata dalle grandi città: mi piaceva quella sensazione di anonimato, che ha raggiunto il culmine quando ho vissuto a Pechino, una città con più di 20 milioni di abitanti, dove ogni individuo era quasi un numero. Da circa nove anni vivo nel centro di Barcellona ma ho la possibilità di rifugiarmi alle pendici di Montserrat, poco distante, in una casa in campagna che dista tre chilometri da un piccolo centro abitato. Un contrasto molto forte fra la vita frenetica della città, ricca di stimoli ed occasioni di incontro, e l’isolamento, in cui ci si può concedere il lusso del lento scorrere del tempo.
Quanto l’eredità di Sciola, e della città museo, ha ispirato il suo percorso?
Ho incontrato personalmente Pinuccio Sciola nel 2010. Ho sempre trovato molto interessante e coerente la sua scelta di vivere e lavorare a San Sperate, soprattutto dopo aver ammirato le sue opere figurative, ad esempio le terrecotte ‘Genti de bidda mia (gente del mio paese)’, in cui si coglie il suo forte carattere identitario ed il legame con la comunità ed il paese. Nell’edizione 2019 abbiamo voluto che la residenza si tenesse a Nurri. L’intento era quello che gli artisti traessero ispirazione anche dalla realtà di San Sperate e dal messaggio di Sciola che, per più di cinquant’anni, ha lavorato a stretto contatto con la sua comunità. Penso sia importante far conoscere il territorio attraverso il lavoro degli artisti che hanno avuto un forte legame con esso.
Negli ultimi anni sta lavorando a progetti che coinvolgono il pubblico nel processo creativo e, allo stesso tempo, collabora con altri artisti. Nello scambio trova più un punto di arrivo o di partenza?
Mi piace pensare che, nel momento in cui due o più individui si incontrano, avviene un’evoluzione, che suggerisce risposte a domande sorte in precedenza o che crea nuovi interrogativi. Per favorire questo processo è fondamentale creare degli spazi in cui si possa esprimere questo desiderio di scambio, anche tra soggetti che provengono da discipline diverse. Solo così, le differenti prospettive, possono convergere e portare a risultati nuovi, interessanti ed inattesi.
Cosa, in particolare, porterà con se della residenza artistica da poco conclusasi?
L’esperienza della residenza è stata molto interessante e ci sono tanti elementi su cui riflettere. Se da un lato è di stimolo aver percepito la partecipazione e l’interesse della comunità di Nurri, che si è dimostrata disponibile, accogliente ed aperta, dall’altro ho avuto quasi la sensazione che, chi provenisse dalle grandi metropoli, abbia avuto uno shock culturale (in positivo). Stare a contatto con una comunità, conoscerne le usanze tipiche, non appartiene alle logiche relazionali delle grandi città, in cui si è perso il valore del dono, cioè de su cumbidu, o de s’agiudu torrau, l’aiuto restituito, e di tutte quelle relazioni che fortunatamente esistono ancora nel territorio sardo. Dell’esperienza della residenza mi porto dietro alcuni interrogativi su come salvaguardare questo ‘sapere-relazionale’ , proprio di un patrimonio culturale intangibile che rischia di scomparire. A mio avviso le piccole comunità non dovrebbero essere considerate come periferie, bensì nuovi centri da cui ripartire, in quanto custodi di importanti valori e saperi, che possono indicare altri cammini.
Gaia Dallera Ferrario
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