C’è una Sardegna a colori che tutti amano guardare e mostrare, dove i paesaggi sono smaglianti e patinati e la natura è rigogliosa. Poi c’è una Sardegna in bianco e nero, dai paesaggi segnati da scheletri arrugginiti. Per questi luoghi dell’abbandono hanno coniato la suggestiva definizione di “archeologia industriale”. Fuor di metafora si tratta delle macerie di una sconfitta, le ceneri del sogno interrotto dell’industrializzazione pilotata e spesso forzata, che ha pagato la debolezza di una stagione politica che basava il suo modello di “rinascita” con il paradossale oblio della nostre radici, con l’asservimento a modelli produttivi che hanno divorato il territorio lasciando ferite indelebili.
Questa Sardegna in bianco e nero è il terreno di indagine visuale per Pietro Basoccu, medico pediatra di Villagrande Strisaili e fotografo attento alle vicende umane e alle dinamiche sociali della sua terra. Basoccu ha costruito un reportage spietato fra quel che resta della Cartiera di Arbatax e delle serre abbandonate della Barbagia Flores. Il suo lavoro “Fioridicarta” sarà in mostra presso la Galleria comunale (ex Mercato civico) di Tortolì dal 20 agosto sino al 6 settembre. L’esposizione è curata da Salvatore Ligios e il catalogo, con testi dello stesso Ligios, di Giacomo Mameli e dell’autore è edito da Soter.
La storia la racconta l’autore nella suo breve presentazione: “Più di 50 anni fa nasce la Cartiera di Arbatax, affacciata sul mare di Tortolì, realizzata di fronte al porto in un’area estesa per 90 ettari. L’insediamento industriale ha modificato il tessuto economico di tutto il territorio, ha cambiato le aspettative di oltre 700 persone che vi lavoravano e lo stile di vita di moltissime famiglie. Dopo 30 anni la “grande” realtà industriale rivela tutte le sue debolezze. Con sofferenza, con flebili speranze di ripresa, ma lentamente e inesorabilmente il sogno finisce.” La storia della cartiera si chiude con il fallimento e un processo per bancarotta fraudolenta. La maggior parte degli imputati è sfuggito alla condanna grazie alla prescrizione.
La vicenda di Barbagia Flores ha anche risvolti tragici: “È il 1993, alle pendici del Gennargentu viene inaugurata l’azienda florovivaistica Barbagia Flores dei coniugi Wallner-Fiori. Sono 14 ettari, 50 mila metri quadri di serre, tecnologie d’avanguardia, coltivazioni computerizzate, azienda che per dimensioni e tecnologia impiegata venne valutata la seconda serra più grande d’Europa.”
Ma già dall’inizio una serie di intimidazioni rivelano che l’azienda ha toccato interessi forti e antiche rivalità. Mentre gli attentati si moltiplicano la Regione e le banche non danno prova di grande lungimiranza. Anzi, proprio nel momento di maggiore crisi, quando molti clienti spaventati cominciano a defilarsi, i proprietari sentono di essere soli. Poi l’epilogo in qualche modo annunciato: all’alba del 3 ottobre 2001, sulla porta della casa che guarda alle serre e Punta La Marmora, la signora Fiori muore, uccisa da mani tuttora ignote.
“La cartiera — scrive Giacomo Mameli nel suo intervento — era sinonimo di rinascita, di stipendio, di moneta che circolava, anche sotto Punta La Marmora si passava dalla solitudine dell’ovile e dell’orto alla vita collettiva della fabbrica, all’azione sindacale dei consigli. Un sogno durato pochi anni: perché l’incapacità tuttasarda e tuttitaliana di non saper fare industria ha debellato sogni, ha sbriciolato famiglie, ha illuso giovani, ha trasformato in cimitero quello che doveva essere un campo rigoglioso di benessere”.
“Il racconto fotografico — sottolinea Salvatore Ligios, curatore della mostra — non deve mai essere fine a se stesso, non si deve limitare a fissare una “bella” fotografia, di quelle cioè che rispondono solo ai canoni imperanti della bellezza, ma deve assolvere il suo ruolo con disciplina per realizzare un documento che salvaguardi il fatto di cronaca ma allo stesso tempo contenere le emozioni che l’autore ha vissuto in prima persona”.
E infatti il racconto di Basoccu usa l’obiettivo come un bisturi che affonda con un linguaggio secco e affilato, nel ventre molle delle contraddizioni, utilizzando metafore visuali potenti e dirette, entrando nel cuore del racconto per distillarne l’amara essenza. Un reportage giocato in spazi disabitati, dove manca l’uomo, ma dove la sua figura incombe attraverso i simboli e le tracce del suo passaggio. La bacheca con le chiavi, i cartellini marcatempo, gli stipetti vuoti sono i segni rivelatori del suo esserci stato. Mentre il foro di proiettile sui vetri di Barbagia Flores sottolinea e significa un dramma che ha i contorni oscuri ma radici antiche.
Fioridicarta è la paziente ricomposizione dei brandelli di un foglio strappato che diventano, a fine percorso, un racconto lucido e coerente. Ogni foto della mostra vive di una propria forza, urla la propria indignazione, è un atto d’accusa a chi è (o è stato) incapace di programmare un serio e coerente disegno industriale dimostrando anche un’imbarazzante inadeguatezza nel gestire momenti di crisi o delocalizzazioni astute e spregiudicate. Il sogno dell’oro di Furtei è il sicuro indizio che non si è imparato nulla dal passato, favorendo ancora una volta operazioni dal respiro corto e dalla vita breve, con un futuro già incerto fin dalla nascita ma con un’unica sicura certezza: che gli utili saranno privati e gli oneri di risanamento saranno pubblici. E se produrre inquinando è un buon affare anche risanare è, per i soliti noti, un bel business.
Pietro Basoccu racconta di aver bussato per diversi anni alle porta di tanti sindaci per proporre il suo lavoro ricevendo dinieghi a volte distratti, altre volte categorici. Segno di un’indifferenza culturale ma anche della voglia di nascondere una Sardegna scomoda e con poco “appeal”. C’è in questa indifferenza anche la consapevolezza che queste foto sono le immagini della sconfitta della classe politica di cui fanno parte. Da troppo tempo incapace di quella visione lucida ed attenta che riesce a farsi disegno progettuale lungimirante e funzionale agli interessi del territorio che — bisogna ribadirglielo ogni volta — sono in genere distanti dai propri interessi personali o da quelli delle tribù politiche di appartenenza.
Enrico Pinna