Al MAN di Nuoro la creatività rigorosa di Berenice Abbot

“Innanzitutto definiamo cosa non è fotografia. Una fotografia non è un dipinto, una poesia, una sinfonia, una danza. Non è solo una bella immagine, non un virtuosismo tecnico e nemmeno una semplice stampa di qualità. È, o dovrebbe essere, un documento significativo, una pungente dichiarazione, che può essere descritto con un termine molto semplice: selettività”. Questa frase di Berenice Abbot, riferita da “Universal Photo Almanc” del 1951, traccia un profilo ben preciso della visione fotografica di una delle più originali e controverse protagoniste della storia fotografica del Novecento a cui il Museo MAN di Nuoro dedica, in anteprima italiana, la mostra Topografie, una selezione di ottantadue stampe originali realizzate tra la metà degli anni Venti e i primi anni Sessanta. Suddivisa in tre macrosezioni: Ritratti, New York e Fotografie scientifiche la mostra, curata da Lola Garrido è, dopo Women (are beatiful) di Garry Winogrand e Street Photographer di Vivian Maier, la terza di un grande ciclo che il MAN dedica alla Street Photography.

Ma se il bulimico Winogrand e la misteriosa bambinaia-fotografa Vivian Maier incarnavano i canoni tipici della fotografia di strada, l’etichetta di “Street Photographer” attribuito alla Abbot è molto più evanescente. C’è nella sua idea di fotografia un’ansia di chiarezza, una ricerca di rigore e di esattezza che si sposa più con la fotografia documentaria che con la fotografia fatta fra la gente. Diverso è anche l’approccio tecnico: se gli altri due pattugliavano le strade con la macchina fotografica al collo raccontando con scatti fulminei e non posati la società attraverso i volti e i gesti della gente, Berenice Abbot fotografava con i passi lenti e pesati imposti dalla macchina di grande formato. Più che fotografare sulla strada il suo era più un fotografare le strade. L’evoluzione dei costumi (almeno nei suoi lavori più noti) passava attraverso le trasformazioni delle architetture e del tessuto urbano.

Ma Berenice Abbot ha avuto varie fasi nella sua parabola creativa ben rappresentate nella mostra di Nuoro (che sarà visitabile sino al 21 maggio) e per inquadrare correttamente il suo lavoro occorre analizzarle.

I ritratti fanno parte del suo periodo europeo. L’incontro con Man Ray e con l’ambiente artistico parigino dei primi anni ‘20 introduce la giovane Berenice alla fotografia, che interpreta con grande personalità al punto da diventare una delle ritrattiste più ricercate di Parigi. Il suo successo segna la rottura con Man Ray e la Abbot comincia a camminare da sola con grande sicurezza. In questo periodo c’è l’incontro con Eugène Atget, allora sconosciuto, di cui divenne ammiratrice e discepola, al punto da acquistarne, dopo la sua morte, parte dell’archivio per iniziare un’opera di attenta valorizzazione che lo ha consacrato come uno dei più importanti fotografi del secolo.

New York è stato il suo periodo più conosciuto con il suo progetto documentario denominato Changing New York che documentava i cambiamenti della società, dopo la grande depressione del ‘29, attraverso le sue architetture e il cambiamento dei luoghi. Qui entra in ballo tutta la geometria della visione di una fotografa ormai completa, che restituisce, con quei grattacieli che si stagliano contro il cielo, con quella verticalità della visione tutta la sua concezione di progresso, di modernità e di cambiamento.

La fotografia scientifica fa parte del suo periodo di maturità quando, nel 1940, diventa picture editor per la rivista “Science Illustrated”. Come il paesaggio urbano le immagini scientifiche diventano uno spazio di osservazione quasi astratto dove ricercare inquadrature ardite ed equilibri geometrici nascosti, in una sublimazione della visione sempre aderente al rigore concettuale della sua idea fotografica.

Nelle ottantadue stampe esposte al MAN c’è una fotografa con una declinazione artistica coerente ai canoni di quella fotografia Straight, cioè diretta, che si opponeva al pittorialismo, rivendicando una visione coerente con la realtà, allineata all’idea della fotografia documentaria ma con l’occhio spesso rivolto ai cambiamenti sociali. Una fotografia che non suona, non dipinge, non recita versi ma, semplicemente, guarda e registra con rigore e creatività.

Enrico Pinna

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