di Andrea Tramonte
L’obiettivo è quello di “insegnare” alla pianta a cercare l’acqua da sola nel terreno. Si tratta di una tecnica storica che si è conservata nelle aree della Marmilla dove non arrivava l’irrigazione: si chiama aridocoltura e ancora oggi viene praticata soprattutto dagli agricoltori più anziani che conservano la memoria di come i campi si lavoravano “un tempo”, ma viene portata avanti in modo scientifico anche da una giovane coppia che ha recuperato le tecniche del passato per conservarle e tramandarle. Marianna Virdis e Francesco Mascia hanno avviato la loro azienda agricola a Villanovaforru – Sa Laurera – undici anni fa e sulla gestione dei campi senza uso di acqua – peraltro in un periodo di emergenza idrica nell’Isola – hanno molto da insegnare. Difficile immaginare a una alternativa di sistema in aridocoltura, perché anche se la qualità dei prodotti è altissima le rese sono più basse rispetto a quelle dei campi irrigati. Ma è una strada molto interessante che in una certa misura può essere praticata anche con volumi più ampi: per esempio con il riso, con la coltura in asciutto sperimentata da Laore nell’Oristanese e con i progetti di una azienda storica della zona come Ferrari, con una riduzione significativa dell’utilizzo di acqua nelle colture.
“La tecnica veniva usata anche in altre zone diverse dalla Marmilla – racconta a Sardinia Post Marianna Virdis – ma quando è arrivata l’irrigazione si è un po’ persa. Noi pratichiamo agricoltura storica e abbiamo voluto recuperarla”. Funziona così: si procede con una prima lavorazione del terreno in autunno, una aratura che serve a rendere il campo morbido e quindi a far sì che le piogge penetrino nel terreno. Poi una seconda lavorazione più superficiale in primavera, per restituire sofficità alla terra. “Anticamente si faceva a mano – racconta Marianna – e noi facciamo così perché otteniamo risultati migliori. Ma si può fare anche con mezzi meccanici, specie se le estensioni dei campi sono maggiori”. Una volta che il terreno è pronto si scavano delle fosse di 40, 50 centimetri di diametro, profonde 30: la distanza tra una fossa e l’altra dipende dal tipo di pianta (un metro e mezzo per i meloni, 80 centimetri o un metro per i pomodori). Si mettono a dimora una decina di semi e si sotterra tutto.
“Nel giro di una settimana, con l’escursione termica tra giorno e notte e l’umidità i semi iniziano a germogliare – spiega Virdis -. Su 10 semi magari 7, o 8, dipende dalla coltivazione: si tengono i due più forti che hanno sviluppato le piante più rigogliose. Le si zappettano, prima una volta alla settimana, poi una volta ogni due e infine una volta al mese”. Questa tecnica ha bisogno di un suolo in salute, quindi non reso sterile da coltivazioni industriali e uso di concimi e pesticidi. “I terreni devono avere sostanze organiche – spiegano i due agricoltori – in modo che siano fertili e possano assorbire e rilasciare acqua. Inoltre non viziando la pianta, non dandole subito da bere, si aiuta a sviluppare le sue radici e quindi fa quello per cui è nata: cercare nutrimenti e sopravvivere”.
La qualità, si diceva, è alta. “Frutta e verdura sono più leggeri perché non hanno acqua e il sapore è indimenticabile perché è quello autentico della pianta. Spesso si usa potassio nei campi per dare dolcezza ai prodotti. Con questa tecnica il frutto esprime la sua dolcezza “vera” grazie al terreno dove si è sviluppato. La soddisfazione maggiore è quando alcune persone anziane assaggiano i nostri prodotti e ci dicono che ritrovano i sapori della loro infanzia”. I due agricoltori hanno sperimentato anche con semi di pomodori industriali, nati per essere iperproduttivi. “Abbiamo messo a dimora le piantine nelle fosse e le ho zappettate – racconta Marianna -. Per 10, 15 giorni la pianta non è morta ma non è cresciuta: è rimasta uguale. Poi ha iniziato a germogliare. Si stava adattando. Quando è fiorita ha fruttificato con ottimi prodotti e una buona resa. Insomma, siamo riusciti ad addomesticarla e ora posso dire con sicurezza che si può coltivare qualsiasi pianta in aridocoltura”.