Vertenza Rockwool, parla uno dei lavoratori: “I miei giorni da murato vivo”

A poche ore dalla demolizione del muro innalzato nella galleria mineraria Villamarina di Monteponi (che è stata abbandonata, non prima però di essere stata ripulita e ripristinata come era in origine, anzi meglio), abbiamo raccolto la testimonianza di uno degli operai ex Rockwool che si sono murati vivi. Lo chiameremo ‘minatore 1’ per garantirne l’anonimato. I nomi degli autori della protesta, infatti, non sono mai stati resi noti. Per tutelarli, ma anche per significare che la protesta era di tutti i lavoratori.

Com’è nata l’idea del muro?

“Dopo circa un mese di occupazione della galleria durante il quale nulla o quasi era accaduto, ci siamo resi conto che occorreva inasprire la lotta, farla diventare più incisiva, insomma stare dentro, in silenzio non sortiva nessun effetto; l’opinione pubblica era partecipe ma la politica, quella che conta e determina, quella era sorda, anzi peggio, direi indifferente, forse è l’aggettivo più giusto”.

Quindi cosa avete pensato di fare?

“Stavamo mangiando un pasto frugale su di un tavolo di fortuna, fatto di polistirolo e plastica, eravamo reduci dall’incontro del 21 che non andò per niente bene, quindi ancora di più amareggiati per la sensazione d’impotenza che si aveva, quando dissi ai miei compagni che ero stufo di andare avanti con l’occupazione senza che nessuno si curasse di noi e che era arrivato il momento di fare qualcosa di eclatante; dissi ai miei compagni: saldiamo il cancello oppure mettiamo delle catene o chiudiamo la galleria con un muro. A quel punto i miei compagni mi guardarono sbarrando gli occhi, probabilmente pensarono che avevo perso la ragione, ma fu un attimo, perché un minuto dopo stavamo già organizzandoci per costruire quel muro che aveva un significato ben preciso: questa è la nostra vita e di qui non si esce finchè i nostri diritti non saranno rispettati”.

Murati vivi dunque.

“Sì, ci siamo murati vivi; la notte, di buona lena, abbiamo eretto quel muro; per noi, gente esperta del mestiere, è stato un gioco da ragazzi; ma mentre si muravano i blocchi di cemento, la rabbia dentro di noi ribolliva perché pensavamo che mai avevamo immaginato di poter arrivare a fare una cosa così grave e mettere a repentaglio la nostra vita, e il futuro per le nostre famiglie. Però, una volta terminato il “lavoro”, nonostante la stanchezza e la sporcizia, l’adrenalina accumulata ci faceva sentire più vivi che mai, altro che morti, e con tanta voglia di combattere ancora.

Poi è arrivato il Natale…

Sì, un momento tristissimo ed emozionante allo stesso tempo, scandito da quegli episodi che ci hanno fatto sentire importanti e ancora utili alla società, come quando è venuto il parroco della Cattedrale Don Antonio Mura e ci ha portato la piccola statua del Gesù bambino che ci ha lasciato davanti alla galleria per tutto il giorno, insieme alla sua benedizione. Non nascondo che in quel momento mi sono dovuto allontanare per bisogno di piangere. Oppure quando tante persone ci hanno dimostrato la loro vicinanza e solidarietà portandoci viveri e generi di prima necessità, a volte loro stessi in preda a una grande ed incontenibile emozione”.

Come avete vissuto questi lunghi giorni da murati vivi?

“Quasi come bestie. Ci lavavamo in una bacinella con l’acqua fredda, ci siamo procurati delle brandine da campeggio e i sacchi a pelo con qualche coperta, così si passava la notte, facendo i turni di guardia, come in guerra. Il mangiare era quello che ci passavano i nostri compagni dall’esterno, e un po’ di caffè caldo. Per i bisogni fisiologici ci siamo arrangiati con mezzi di fortuna. Però, questo lo scriva, quando siamo usciti, abbiamo restituito la galleria Villamarina all’Igea perfettamente pulita, senza neanche un pezzetto di carta”.

Come ha vissuto la tua compagna questo difficile momento?

“La sera che ci siamo murati le ho detto che andavo al presidio. Deve aver percepito qualcosa nella mia voce o ha visto un’espressione diversa nei miei occhi perché mi si è avvicinata e, con le lacrime agli occhi, mi ha detto: andate fino in fondo, non mollate proprio ora. Aveva capito che la lotta si sarebbe fatta più dura e sentivo che lei era al mio fianco. Questo mi ha reso più forte. Lei, come le altre mogli e compagne e figli di noi minatori… ci sono stati sempre molto vicini, mai un momento di ripensamento”.

Il bilancio finale?

“Il bilancio è questo: siamo di fronte ad una politica che in tanti anni ha sperperato immense risorse di denaro pubblico senza realizzare niente, hanno vissuto alla giornata e stanno facendo vivere anche noi in questo modo. Il Sulcis è morto perché la politica non si è curata di questo territorio. Le tante realtà che sono nate con fondi pubblici sono poi naufragate non per inefficienza o incompetenza, ma perché la politica non è intervenuta quando doveva. Noi abbiamo due priorità: la prima è il nostro posto di lavoro, la seconda sono le bonifiche. Senza le bonifiche, quelle serie. Tutto il patrimonio minerario dismesso è destinato a diventare, lo sta già diventando, un ammasso di ferro vecchio e arrugginito. E noi dei cassintegrati di lungo corso”.

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