Per il comparto moda sardo, i produttori di abbigliamento, del tessile e delle lavorazioni in pelle, gli ultimi due anni sono stati i più duri dal secondo dopoguerra. Prima del Covid questo settore era uno dei fiori all’occhiello del Made in Italy e del lusso da esportazione ma ora, con la mancanza di materie prime, l’aumento dei prezzi e la crisi internazionale, le imprese rischiano l’affossamento del fatturato e una frenata della ripresa. Per stilisti, sarti, produttori e designer di abiti, calzature e accessori d’abbigliamento sono molteplici i fattori che stanno mettendo a dura prova la ripresa della moda a livello nazionale, e anche in Sardegna; tar questi la mancanza di materie prime, il loro costo fuori controllo, le nuove esigenze della clientela e la chiusura di importanti mercati internazionali. Un settore, che nella nostra regione conta 268 realtà artigiane (il 79,3 per cento) sulle 338 micro e piccole imprese totali del territorio (115 dell’abbigliamento, 142 del tessile e 41 della lavorazione della pelle), con 539 addetti artigiani sui 798 complessivi nel settore.
Sono questi i numeri, elaborati dall’Ufficio studi di Confartigianato Sardegna nel dossier “Il ritardo della ripresa della moda nell’Isola”, su dati Istat, che confermano la vocazione artigiana del comparto. A Cagliari le piccole imprese del settore sono 95 con 299 addetti, nel Sud Sardegna 41 con 64 dipendenti, a Oristano 36 per 82 lavoratori, nel Nuorese 60 realtà per 84 impiegati e nel nord Sardegna 106 realtà con 269 addetti. Dopo il virus, il conflitto nel cuore dell’Europa è il fattore non secondario che a livello nazionale sta incidendo notevolmente sul Pil e sulle esportazioni. La moda italiana infatti, è il secondo settore per esportazioni in Russia, con vendite nel 2021 pari a 1,346 miliardi di euro, il 17,5 per cento del totale, dietro ai macchinari e apparecchi per 2,147 miliardi, il 27,9 per cento del Made in Italy verso il Cremlino.
“Il momento non è semplice, non nascondiamocelo, ma le nostre imprese restano ottimiste e provano a reagire, incrementando le azioni promozionali e cercando di essere più presenti sul mercato – commenta Daniele Serra, segretario regionale di Confartigianato imprese Sardegna –. Il 2020 è stato molto duro, visto che le aziende avevano già realizzato e consegnato le collezioni, ma con i negozi chiusi in tutto il mondo tanti prodotti sono rimasti invenduti, molti clienti li hanno resi e solo alcuni hanno chiesto sconti. Però, già nel 2021, tanti artigiani si sono fatti trovare pronti con nuove collezioni e tutti gli strumenti, virtuali e non, necessari a ricreare nuovi modelli”.
Per gli operatori, il ritorno delle fiere in presenza è uno dei pochi segnali positivi, che può anche contribuire a rilanciare gli interscambi con l’estero. Il mercato della moda sarda in Russia ammontava a 232mila euro l’anno. “Anche se l’export della moda sarda in Russia non faceva segnare numeri importanti – prosegue Serra – rappresentava una importante vetrina, un richiamo, per tutti i russi che passavano le vacanze nella nostra Isola che, da noi, venivano anche per acquistare tutta la gamma di produzioni realizzata dai nostri piccoli atelier”.
Inoltre, tra le conseguenze della guerra, c’è anche il rincaro dei semilavorati e dell’energia, entrambi collegati al comparto. “I filati, per esempio, stanno registrando rincari medi del 40 per cento. Lana e cashmere, in particolare, sono saliti del 30 per cento. Nel settore incidono anche gli aumenti dei costi di tintoria, intorno al 20 per cento – rimarca il segretario –. E poi, come per tutto il manifatturiero, l’aumento dei prezzi dell’energia, stimati intorno al più 150 per cento”.
Ed è proprio sulla mancanza di materie prime che Confartigianato Sardegna lancia la proposta di coltivare, e trasformare, in loco piante come il cotone. “Si potrebbe fare come sta avvenendo già in Puglia e Sicilia per la fibra tessile – propone Serra – dove le coltivazioni hanno già dato i frutti e dove sti stanno chiudendo intese con grandi gruppi del settore tessile interessati a garantirsi una filiera certificata tutta bio e tutta italiana. Perché non farlo in Sardegna, come sta per avvenire con il grano. Così facendo, potremmo ridare vita a terreni incolti, favorire la nascita di nuove imprese di lavorazione dei tessuti e avere i sarti che realizzano indumenti sardi al 100 per cento, dalla pianta al prodotto finito”.