Il Sulcis (ri)vuole l’alluminio perduto: duemila lavoratori in attesa del rilancio

L’alluminio in Sardegna non si produce più. Ma nel Sulcis si attende che le due storiche fabbriche di settore, Eurallumina (nella foto) ed ex Alcoa, riprendano a funzionare. Due aziende distinte ma anelli della stessa filiera. Con la prima (che estrae l’allumina dalla bauxite) ferma dal 2009 e la seconda (produttrice di alluminio primario) chiusa dal 2012. Serve infatti un lungo processo di raffinazione e trasformazione perché l’alluminio, “leggero ma resistente”, diventi componentistica per telefoni, vaschette per gli alimenti, lamiere o cerchi per auto, strumenti per l’edilizia e materia prima per molti altri oggetti di uso quotidiano. In Italia questo doppio passaggio ha funzionato solo nel Sulcis, prima della crisi industriale di qualche anno fa. E per la precisione a Portovesme.

Le due fabbriche sarde costituiscono il primo e secondo anello della filiera dell’alluminio. E vedono centinaia di lavoratori al centro di una mobilitazione costante. Succede intanto per le tute verdi di Eurallumina, azienda fondata dall’ente statale Efim sul finire degli anni 60, privatizzata negli anni 90 e rilevata nel 2006 dalla russa Rusal: gli operai, in cassa integrazione da dieci anni, si battono quasi quotidianamente per far sì che la fabbrica sia rimessa in marcia. O meglio, che si riprenda quel filo interrotto il 13 marzo 2009. Quando, a causa degli elevati costi energetici, sono stati spenti gli impianti che, alimentati a vapore e assicurando occupazione a 410 dipendenti diretti e circa 200 degli appalti, producevano un milione e 200 mila tonnellate di allumina. Ovvero, la materia indispensabile per la produzione di alluminio primario destinata per il 30 per cento al mercato regionale (ossia alla vicina Alcoa) e la restante parte a quello internazionale.

L’azienda di Portovesme ha un nuovo programma di interventi per ammodernare e migliorare l’attuale impianto industriale con l’adeguamento della raffineria. Dopo le modifiche e un iter che supera i 1.600 giorni, sono previsti investimenti per circa 240 milioni di euro (tra risorse aziendali e finanziamenti a tasso agevolato e a fondo perduto). I lavori dureranno tra i diciotto e i trentasei mesi. Saranno reinseriti 357 lavoratori diretti (in 53 sono andati in pensione), verranno fatte circa 100 nuove assunzioni. Con gli appalti si garantiranno 270 buste paga, altre duecento nell’indotto.

Il progetto di rilancio prevedeva, inizialmente, la costruzione di una centrale a carbone per la produzione di vapore, sostituita poi da quella che è stata definita la svolta green: la realizzazione di un vapordotto. Ossia una sorta di ‘tubo’ collegato alla vicina centrale Enel da cui attingere 180 megawatt termici contro i 285 di potenza che avrebbe prodotto la caldaia. La fase istruttoria è ancora in corso e prima dell’avvio mancano ancora alcuni passaggi autorizzativi alla Regione.

A fare i conti con la ristrutturazione degli impianti fermi dall’ottobre del 2012 è anche l’ex Alcoa, il secondo anello della filiera. Quello che, nato con le partecipazioni statali e gestito negli ultimi anni dall’ingresso degli americani, produceva alluminio primario dalla lavorazione dell’allumina acquistata in parte dalla vicina Eurallumina e in parte dall’estero. “Si realizzava un prodotto di altissima qualità e dall’alto valore aggiunto e con ottimi premi sui mercati – chiarisce Bruno Usai, in fabbrica dal 1988, e ora nella segreteria Fiom –. Basti pensare che fornivamo, giusto per fare un esempio, la Ferrari”.

In media dallo stabilimento di Portovesme, che garantiva occupazione a circa 600 dipendenti diretti, 400 degli appalti e tutto l’indotto (col tempo licenziati e inseriti nel calderone degli ammortizzatori sociali), uscivano 155mila tonnellate l’anno di alluminio primario per pani e billette (un semilavorato) assicurando un fatturato all’azienda di circa 500 milioni di euro. Poi la fermata. Anche in questo caso è stata determinante la questione energetica e i costi troppo elevati, a cui si è aggiunta una procedura di infrazione dell’Unione europea e la decisione di Alcoa di lasciare la fabbrica. Dopo varie trattative e un intervento del Governo è subentrata la svizzera Sider Alloys, sebbene i lavoratori non siano stati ancora riassunti.

Il gruppo, con sede principale a Lugano, è esperto nella commercializzazione di metalli e acciaio. Dopo aver rilevato lo stabilimento di Portovesme ha predisposto un programma da 140 milioni di euro, tra investimenti privati, risorse a fondo perduto e prestiti a tasso agevolato. Obiettivo: rimettere in marcia gli impianti con il proposito di reinserire circa 370 lavoratori e garantire una produzione di circa 150 mila tonnellate l’anno di alluminio primario da destinare al mercato nazionale (coprendo circa il 15 per cento del fabbisogno) e a quello europeo (coprendo circa il 3 per cento).

“Stiamo attendendo che parta la ristrutturazione degli impianti e sia definita la questione relativa all’approvvigionamento energetico – aggiunge Usai -. Poi l’auspicio è che si riprenda con la produzione di cui noi abbiamo sempre rimarcato la strategicità”. Perché “non ci sono in ballo solo posti di lavoro, ma anche professionalità e futuro. Non tutti sanno che l’alluminio che tutti giorni usiamo arriva anche da queste fabbriche”. Per Bruno Usai è una questione di politica economica. “In questo scenario pongo un quesito: noi, inteso come Paese, rinunciamo a fare alluminio perché lo compriamo a prezzi più bassi all’estero. Se, dopo che abbiamo spento gli impianti e rinunciato alle nostre competenze e professionalità, il mercato estero raddoppia i prezzi, cosa facciamo?”.

A rimarcare l’importanza della produzione è Tore Cherchi, ex coordinatore del Piano Sulcis alla Regione e un passato da sindaco di Carbonia e presidente della Provincia: “L’alluminio è essenziale per tutto il settore dei mezzi di trasporto. Non casualmente l’industria tedesca mantiene in esercizio gli impianti”. Cherchi, che ha seguito le diverse fasi relative al comparto, aggiunge che “con le decisioni prese dal ministro Calenda la fabbrica Eurallumina e ex Alcoa erano destinate a ripartire. Questo Governo ha revocato quelle decisioni e non ha sinora proposto nulla in alternativa. Il rischio per le fabbriche sarde è quindi molto alto”.

Il ciclo della metallurgia ha lasciato nel Sulcis anche una pesante eredità ambientale con suoli e falde acquifere da risanare. È il capitolo delle bonifiche, a cui dedichiamo la seconda puntata di questo focus sull’industria.

(1- continua)

Davide Madeddu

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