LA RECENSIONE. La graphic novel di Roca: “La casa” e l’eredità sentimentale

Di fronte ad una perdita l’elaborazione di un lutto passa anche attraverso gli oggetti della quotidianità perché anche loro sono dei “resti” che rappresentano un’assenza. Come “La casa” che dà il titolo alla graphic novel di Paco Roca, che verrà presentata stasera al festival Marina Cafè Noir a Cagliari, è il luogo centrale dell’esistenza di Antonio che l’ha costruita durante tutta una vita per far sì che i propri figli potessero avere qualcosa che lui non aveva mai posseduto. Ora quei figli, ormai adulti, si ritrovano dopo la sua morte a decidere del destino di quell’abitazione. L’occasione di doverla ristrutturare, nell’ottica di una vendita, mette in moto i meccanismi della memoria e la necessità (e dovere) di dover rimettere mano alle proprie esistenze e al loro rapporto con il proprio genitore.

Alla base della storia c’è la morte del padre dell’autore che attraverso questo racconto ha voluto non solo riflettere sul valore affettivo di quella perdita personale attraverso il disegno e il colore del proprio mestiere di fumettista, ma anche renderla universale. In fondo tutti in vita hanno perso qualcuno, perciò ognuno si riconosce e si specchia in quei tre fratelli così diversi l’uno dall’altro che si ritrovano a dover rivivere in quella casa, con le sue stanze, vuote fisicamente, ma in realtà piene perché il tempo ci ha depositato negli anni il peso dei ricordi che si riverberano in un piatto, in un trofeo vinto da ragazzini o in un pergolato sbilenco fatto con mezzi di fortuna. Il rimettere mano a intonaci scrostati e tegole è la metafora della necessità di dover restaurare anche le crepe del cuore e cementare gli affetti come mai si era fatto prima.

Così riemerge questa figura paterna raccontata a spizzichi dai ricordi dei tre figli. Ognuno ha un suo punto di vista: Josè lo scrittore che lo vede sempre come figura assente, Vincente il più grande, a cui deve il suo senso di responsabilità e del dovere e Carla, che vi proietta il suo essere stata bambina. Il ritratto di Antonio è quello di un uomo semplice che si è dovuto guadagnare tutto in una Spagna allora sotto la dittatura franchista. Roca però non fa un discorso politico, narra in maniera intima attraverso squarci vividi potentissimi: la sua infanzia povera, dove basta avere dei fichi per essere felici, il lavoro da adulto e quella casa di fronte al mare che diventa un’ossessione quasi. Costruita pezzo a pezzo nei fine settimana, con l’aiuto dei figli che crescono in contemporanea a quei muri. Così il libro diventa, come in “Rughe”, opera precedente dell’autore, una nuova riflessione sullo scorrere dell’esistenza. Ma se in “Rughe” andava tenuta con tutte le proprie forze prima che l’Alzheimer ne sradicasse pezzo a pezzo la memoria, qui ne “La casa” viene lasciata scorrere nella sua irruenza, comprese le sue piccole e grandi tensioni, incomprensioni, ma anche tenerezze e spensieratezze.

Sono tanti i frammenti narrativi che colpiscono per la loro forza emozionale e commuovono: dalla splendida e struggente sequenza di apertura che racconta, in silenzio, come Antonio si accomiati dalla vita uscendo da quella casa per non tornarci mai più, ai tantissimi flashback che si dipanano tra una partita delle Olimpiadi vista dal cofano di un’auto, al bagno in un bidone di fortuna, a una firma sul muro dopo averlo costruito. Come ha scritto Fernando Marias, “La casa ha permesso a Paco Roca di disegnare il tempo che se ne va, che se ne è andato e se ne andrà”.

Francesco Bellu

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