Il Muto di Gallura, il regista Fresi: “Racconto un bandito che era straniero nel mondo”

Andrea Tramonte

di Andrea Tramonte

C’è qualcosa che colpisce nello sguardo di Bastiano Tansu, nei suoi occhi sbigottiti e tristi resi in modo estremamente convincente dall’attore Andrea Arcangeli. Forse è uno smarrimento costante, il senso di estraneità rispetto a un mondo con cui non può comunicare e che non può ascoltare, e che vive istintivamente secondo regole che sembrano fondersi con il paesaggio duro e ineluttabile della Gallura, tra le sue rocce di granito che scandiscono quei luoghi e ne determinano identità e destino. “Per interpretare il bandito ho scelto un attore non sardo proprio per esaltare il suo essere straniero nel mondo”, spiega Matteo Fresi, regista classe 82, nato a Torino ma di origini sarde. Il Muto di Gallura – prodotto da Fandango con Rai Cinema, con il supporto della Fondazione Sardegna film commission – è la sua prima pellicola; la storia è tratta dall’omonimo romanzo di Enrico Costa e racconta una vicenda realmente accaduta nel territorio di Aggius, una faida familiare che ha insanguinato il territorio e causato la morte di una settantina di persone nel corso di pochi anni. Braccio armato di Pietro Vasa era Bastiano, sordomuto fin dalla nascita, mira infallibile col fucile, diventa nel giro di pochi anni una leggenda: considerato figlio del diavolo, conosce la perdita, il dolore, il desiderio di vendetta, l’amore e la delusione. Una figura di fronte alla quale lo spettatore riesce a sviluppare – nonostante tutto – una profonda empatia. Forse proprio perché, nonostante i tanti omicidi commessi senza battere ciglio, se ne intuisce la natura profondamente tragica. E il fatto che in fondo i veri colpevoli erano altri. 

Cosa l’ha appassionata della vicenda del bandito e l’ha spinta a raccontarla nel film?

Ho sempre trovato la storia molto affascinante, l’ho ascoltata fin da bambino raccontata dai miei nonni. Quando ho riletto romanzo in età adulta ho trovato che anche la struttura – oltre al racconto in sé – fosse molto contemporanea e se ne potesse tirar fuori un film interessante. Poi c’è un tema che mi è molto caro, che è quello della diversità, dell’emarginazione. Come vediamo nel film può diventare tragico allontanare qualcuno dalla società, non farlo sentire integrato. 


Chi è per lei Bastiano?

Ciò che ci affascina di più è il suo aspetto ferino, bestiale, il suo essere una componente, una forza della natura, che non si piega alle regole degli altri e in qualche modo deve inseguire per forza il suo destino tragico.

La storia è ambientata nell’Ottocento ed è calata profondamente nella società gallurese di allora. Cosa trova di attuale in quella vicenda?

Vedo molti appigli con la contemporaneità per quanto riguarda il sistema delle regole, che quando diventano imprescindibili, feroci, si corre il rischio che queste regole si disgreghino e portino paradossalmente all’anarchia.

Lei è di origini galluresi. Cosa ha portato nel film dei suoi ricordi di infanzia?

Quella è una zona che ho frequentato fin da bambino. Quello che mi è rimasto appiccicato è la spigolosità del paesaggio, che allo stesso tempo riesce ad essere molto duro, violento ma anche accogliente. Questo tipo di paesaggio si sposa perfettamente con la storia che abbiamo raccontato. Per esempio le sughere contorte, piegate dal vento, sono molto collegate al modo di pensare piegato e corrotto di quel tipo di società: nel paesaggio ci sono moltissimi rimandi metaforici. 

Il film è stato girato nel territorio di Aggius. 

Abbiamo usato molto la valle della luna, il monte Pulchiana, meraviglioso, ricco di granito. Compare invece poco il mare, un po’ perché nel romanzo quasi non c’è e poi perché per me rappresentava un po’ un confine. E infatti lo abbiamo usato solo in due scene finali, che sono molto importanti. 

L’opera è recitata prevalentemente in sardo gallurese. Naturalmente coi sottotitoli. 

Era impossibile staccare questa storia dalla sua lingua. Il modo che usiamo per esprimerci influenza direttamente il nostro modo di comportarci e di pensare. Pe me era indispensabile. 

Gli attori hanno avuto difficoltà ad approcciarsi al gallurese?

Il cast è quasi tutto sardo. Fatta eccezione per tre di loro, che sono volutamente non sardi. Il prete che veniva dal regno sabaudo, l’intendente che anche lui arrivava dal continente. Il terzo è il protagonista ed è una scelta precisa perché volevo aiutarlo in questo modo a sentirsi straniero in mezzo agli altri. Questo ha aiutato lui a entrare in questa dimensione e il resto del cast a guardarlo in maniera differente rispetto agli altri. 


Sul piano narrativo Il Muto di Gallura prende molti riferimenti dal western. 

Ho cercato di condire il film con elementi che potessero traghettare la storia in un’epoca più vicina a noi e fosse più comprensibile. L’ingrediente western fa parte di questo discorso. Costumi e musiche li abbiamo scelti cercando di togliere la storia da una teca museale che l’avrebbe lasciata più sterile, nel dimenticatoio.

Come prima opera ha scelto una storia molto sarda. Qual è il suo legame con l’Isola?

Ho lavorato qui come skipper e istruttore di vela ma prima ancora il mio legame è familiare. Mio papà è gallurese e ho trascorso tutte le estati della mia vita qui, tornando periodicamente per trovare la mia famiglia. Una connessione molto forte. 

Matteo Fresi, foto di Giulia Camba

Andrea Tramonte

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