Il Muto di Gallura nei cinema sardi: il personaggio diventa ‘mito’

“Dove mette l’occhio mette la palla”. Sebastiano, Bastiano Tansu, fin da piccolo era noto per la mira infallibile. E se visse e uccise per odio, morì per amore. Il suo corpo dopo essere stato ammazzato a tradimento non fu mai ritrovato. La storia del ‘muto di Gallura’ tracima in quella del ‘mito della Gallura’.

E lo strepitoso film del torinese – ma di madre gallurese – Matteo Fresi, da domani in uscita in tutta la Sardegna (con un’anteprima stasera alle 18 a Tempio) e dal 31 nel cosiddetto ‘Continente’ (dopo essere stato l’unico film italiano in concorso al 39 festival cinematografico di Torino), ben riporta anche nella ricostruzione filologica dei dialoghi in gallurese stretto con tanto di sottotitoli in italiano quella atmosfera da metà Ottocento quando i territori della odierna Costa Smeralda erano molto meno addomesticati di come li vede e li vive oggi qualunque turista o forestiero che dir si voglia che vi si rechi in visita.

Matteo Fresi il regista del film

Un grandioso spaccato del Regno di Sardegna ed è sintomatico che a raccontarlo sia un torinese di madre gallurese per l’appunto. Che abbonda anche in musichette con trovate simil western alla Morricone quando cominciano a sibilare le prime pallottole di morte. All’epoca i piemontesi faticavano non poco a tenere l’ordine pubblico, di fatto lasciandolo in mano alla chiesa e ai capi fazione delle varie faide che dilaniavano l’isola spesso per futili motivi.

Quella raccontata dallo scrittore Enrico Costa trenta anni dopo gli accadimenti né è l’esempio più illuminante: due famiglie i Vasa e i Mamia che stanno per imparentarsi visto che il giovane Pietro si è innamorato della figlia di Antonio Mamia , Mariangiola. E che è andato persino a presentarsi per la cerimonia dell’abbraccio, descritta magistralmente da Costa nelle prime pagine del libro e abbastanza realisticamente anche dal regista. Ma poi dopo pochi giorni tutto cambia.

Andrea Arcangeli in una scena del fim

Qualcosa si incrina: il padre della futura sposa pretende dal futuro genero che questi faccia pace con una famiglia, quella dei Pileri, con cui è in inimicizia pre faida da tempo. Il giovane invece di ragionare prende di aceto e risponde male: “con quello ci farò pace solo quando lo vedrò tenendo la ‘berritta’ sotto il braccio”. Alludendo alle cerimonie funebri locali in cui per l’appunto gli uomini tengono il caratteristico cappello da pastore sotto l’ascella.

Questo rifiuto basta per scatenare una faida che in sei anni produrrà oltre settanta morti, tra cui donne e bambini . Il cecchino per eccellenza è proprio questo giovane nato sordomuto, Bastiano Tansu, usato dalla fazione di Pietro Vaso – che morirà in carcere nel 1857 senza avere ottenuto la agognata amnistia che gli era stata promessa se avesse ucciso a tradimento, come fece, proprio il ‘muto’ – per regolare i conti con i Mamia . Il ‘muto’ viene visto come un figlio del demonio invece che come un povero infelice, nel film si vedono i sortilegi cui fu sottoposto fin da bambino nella vana speranza che recuperasse parola e udito.

La famiglia Vasa in una scena del film

Ma ciò che la natura gli aveva negato glielo concesse la bella pastorella bionda Gavina, figlia di Anton Pietro, pastore timorato di Dio e pacifico e amico di Pietro Vasa. Un amore consumato nella sensualità della natura ma negato dalle convenzioni locali. Gavina infatti è stata promessa in sposa a un cugino di Sassari. Ecco allora che il ‘muto’, dopo avere assaporato l’amore, non sapendo fare altro, torna a uccidere anche dopo la pacificazione solenne delle due famiglie in faida davanti al prete di Aggius. Stavolta per gelosia.

Finirà quasi come il bandito Giuliano con la differenza di venire ucciso a tradimento non dal suo luogotenente ma dal suo mandante. Come si diceva il corpo non verrà mai ritrovato. E da questa circostanza forse nacque la leggenda e il ‘mito’ del ‘muto’. L’uomo che nel tempo aveva imparato a proferire, anzi a urlare, due sole parole: “lu tumbu”. Cioè “lo tombo”.
Dimitri Buffa

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