Ecco le canzoni sperdute di Vanvera, musiche da Villacidro in bassa fedeltà

Parla delle sue canzoni come di creature spaesate, vagabonde, che avevano bisogno di essere accudite e di trovare un rifugio che potesse accoglierle. Vanvera lo rivendica fin dal titolo del suo nuovo album in uscita domenica: i suoi brani sono Little lost kittens, piccoli gattini sperduti. “Nel corso dell’ultimo anno mi sono messo a giocare con alcuni pezzi del passato, registrati anche dieci, quindici anni fa. Erano canzoni che avevo dimenticato o semplici bozze messe da parte. Ho pensato di dar loro una nuova forma e una casa”. Le nuove canzoni nascono dall’incontro tra musiche e melodie scritte di recente e diverse idee in un certo senso irrisolte, qualcosa che ancora aspettava – e meritava – di essere sviluppato: tutto cucito insieme in una veste musicale che per l’occasione assume le forme di un synth pop minimale di ispirazione anni Ottanta, attraversato da una corrente calda di spiritual e blues e sostenuto dalle percussioni tribali di una drum machine. Sette canzoni sotto il segno della bassa fedeltà: impronta testimoniata anche dalla scelta di pubblicare l’album su cassettina per la piccola etichetta cagliaritana Moka Produzioni.

Vanvera, al secolo Mauro Vacca, è un cantautore e musicista di Villacidro che torna con materiale nuovo a dodici anni dall’uscita del disco d’esordio, quell’I wish upon a scar che fece parlare di sé molto bene a livello nazionale – uno dei brani, Emma, I’m A Hyena? entrò nella lista delle cento migliori canzoni italiane del 2007 secondo Rockit – e fu una sorta di testa d’ariete del tentativo di “sfondamento” della scena indie rock sarda al di là del mare. Parliamo degli albori di Here I Stay, nel senso di etichetta discografica, festival e comunità allargata di musicisti che, dopo anni di gavetta, stava iniziando a raccogliere un po’ di frutti di quanto faticosamente seminato negli anni. Nonostante i consensi ottenuti a livello di critica e di pubblico e la possibilità di crescere ulteriormente, ad un certo punto il progetto Vanvera si arenò e sembrò naufragare: un secondo disco registrato e mai uscito, una disillusione sempre maggiore rispetto al suo futuro di musicista, l’inizio di un lungo silenzio discografico. Un digiuno rotto solo qualche anno dopo, quando si presentò di nuovo al pubblico con un altro progetto, i Pussy Stomp, insieme alla compagna musicista Roberta Etzi. La nuova vita di Vanvera tuttavia non è del tutto inaspettata. Due anni fa Mauro aveva riunito la band per suonare l’intero album d’esordio all’Here I Stay Festival, in occasione dell’anniversario dei dieci anni dall’uscita del disco. “In quel momento ho capito che si era riaperta una porta. Ho riniziato a pensare al progetto, a riascoltare vecchie prove, e ho pensato che fosse l’occasione per fare delle cose che con l’altra mia band non posso fare. Soprattutto certe melodie vocali più “vanverose”, per così dire”.

La cassetta di Little Lost Kittens di Vanvera (Moka Produzioni)

Il Vanvera degli esordi era una specie di cantautore post punk, scuro e viscerale che suonava brani a cavallo tra le ballate nickcaveiane e il folk, un blues cupo e polveroso che si alternava a sferzate più elettriche e aggressive. Il nuovo Vanvera suona con tastiera Casio e drum machine e rivendica come riferimenti musicali i Cure della fase electropop e i Depeche Mode. La veste è diversa ma sono numerosi gli elementi di contatto col passato. L’uso della voce, calda, “di stomaco”, enfatica o su tonalità cupe a seconda dei diversi momenti dei brani, l’amore per le “murder ballad” e il blues, i riferimenti, anche velati, all’America musicale profonda. Uno dei brani migliori, Fun of me, suona come una specie di gospel tribale ed è il lamento di un ragazzo che cerca di ottenere disperatamene l’approvazione dei fratelli, senza riuscirci. “Ho sempre amato le sonorità del gospel e delle work song. Mi piace l’idea che le canzoni possano essere terapeutiche, nell’esercizio della loro messa in scena o anche nell’essere cantate in solitudine”.

Il disco si apre con Dorothy, murder ballad che racconta la storia di una ragazza che aveva ucciso il fidanzato, colpevole di aver fatto lo sbruffone con altre donne in giro, e del suo confronto col padre che cerca di capire cos’è successo. Yoconic è un altro brano molto riuscito, che parla di due bambine che da grandi volevano essere rispettivamente come Nico e come Yoko Ono. Incontrano un personaggio che le invita a entrare in una sorta di macchina dei desideri per poter realizzare il sogno di essere come i loro miti, ma qualcosa va storto e diventano una specie di blob con nessuna delle migliori caratteristiche dell’una e dell’altra. “È una canzone che parla in modo giocoso dell’importanza di accettare se stessi”, spiega Mauro. “Va bene avere dei modelli ma non ambire a diventare qualcun altro, magari in modo superficiale”.

Little lost kittens verrà presentato ufficialmente stanotte a Villacidro al chiosco Sa Spendula e domenica a Cagliari al Fuaiè del Teatro Massimo (dj set su cassettina di Mr Moka, alias di Nicola Porceddu). Per l’occasione Mauro si presenterà con una formazione inedita, i Golden Birdies, composta da Roberta Etzi, Andrea Cherchi in arte Was (con cui ha registrato il disco), Luca Gambula e Giacomo Salis. “Siamo riusciti a tirare su il live in cinque sei prove e sono molto soddisfatto”, dice Mauro. “Sarà strano vedere tre chitarristi bravissimi come Roberta, Andrea e Luca suonare le tastiere. Giacomo invece suonerà un set di batteria minimale, con timpano, rullante e percussioni, ad accompagnare la drum machine gestita da me. Per l’occasione proporremo anche tre brani del primo disco, riarrangiati in chiave più electro, e diversi pezzi nuovi. Che potrebbero andare a far parte di un nuovo, ulteriore album”.

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Il ritorno di Vanvera dopo un silenzio discografico così lungo rende giustizia, almeno un po’, a un progetto musicale che avrebbe meritato di raccogliere di più. “Ho un ricordo molto bello di quei primi anni, quando avevano iniziato a uscire dischi davvero belli: Golfclvb, June, Plasma Expander, Trees of Mint. C’erano dei fermenti molto positivi e mi sembrava che ci fosse una specie di quadratura del cerchio, con recensioni ottime, riscontri live, partecipazioni a festival importanti come il Miami. Dopo anni passati a fare gavetta in saletta e a non andare da nessuna parte, mi sembrava fosse arrivato il momento di raccogliere. Però bisogna avere molta volontà per cercare di vivere di musica e forse mi sono spaventato un po’. Ho iniziato anche a sentire che la mia band live – che mi piaceva molto – stesse andando in una direzione diversa da quello che avrei voluto all’inizio. Volevo una band meno “cool” e meno aggressiva, più lo-fi. E forse le cose hanno iniziato a sfuggirmi un po’ di mano”. Il secondo disco venne registrato, come il primo, al Natural Headquarter di Ferrara, dove passavano alcune delle migliori band indie rock di quegli anni. Ma la messa a fuoco del progetto non era precisa, quasi maniacale, come nel caso dell’ottimo esordio. “Nel secondo disco, malgrado ci fossero delle buone idee, il modus operandi è stato disordinato e mi sono ritrovato con una dozzina di abbozzi di canzoni che non potevano reggere un disco completo da dare alle stampe. E così quell’album, che non aveva convinto nessuno, non vide mai la luce”. Sembra una vita fa. Il ritorno di Vanvera è il segno che il discorso interrotto è stato ripreso serenamente seguendo i tempi e il passo necessario di un autore di grande talento. “In un certo senso è come se guardassi la vita filtrata dal paese, che ti culla nel suo essere il posto in cui sei nato e cresciuto e che allo stesso tempo fa da schermo al mondo esterno. Continuo a sentirmi in fondo come quel ragazzino che ascoltava i dischi a quattordici anni e immaginava di diventare come uno dei suoi cantanti preferiti. Come se pensassi alla musica come qualcosa di lontano, che qui non può esistere: quasi un mondo irraggiungibile”.

Andrea Tramonte

(La foto è di Valentina Etzi)

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