Arte, si è spento a 91 anni Tonino Casula. Ritratto di uno sperimentatore che amava sorprendere

Andrea Tramonte

Ha portato avanti la sua routine fino all’ultimo. Ogni giorno Tonino Casula andava nello studio di via San Domenico, nel quartiere di Villanova a Cagliari, e si metteva a lavorare alle sue opere d’arte elettroniche con l’entusiasmo e lo stupore di un ragazzino. Oggi l’artista – una delle voci più importanti dell’arte contemporanea in Sardegna – ci ha lasciati all’età di 91 anni. Proprio pochi mesi prima dell’inaugurazione di una importante mostra che ne avrebbe celebrato il lavoro condotto per decenni.

Entrare nello studio di Casula era come varcare la porta di un mondo appartato, ricco di opere d’arte e illusioni ottiche sorprendenti. Verso la fine della prima stanza – un lungo corridoio dove sono conservati gli attrezzi da lavoro dell’artista barbaricino collezionati nel corso dei decenni – ci si imbatte in uno strano oggetto luminoso, di vetro, sistemato a terra a ridosso di un gradino. Lo ha costruito Casula. Quando le luci interne sono spente la superficie è uno specchio, grazie a un materiale che un tempo veniva usato nelle vetrine dei negozi; quando sono accese si intravede una sorta di tunnel: un buco che passa dal pavimento ed esce dall’altra parte. Ma è solo un’illusione ottica di fronte alla quale chi entra nello studio non sa bene come comportarsi. “Una volta l’ho mostrato all’inquilino del piano di sotto e gli ho detto che vedevo tutto quello che succedeva a casa sua. Per un po’ ci ha creduto”, ci aveva detto Casula prima di una intervista uscita per Sardinia Post Magazine. L’artista aveva una curiosità quasi fanciullesca nel vedere come le persone reagiscono alle sue opere e ai giochi sulla percezione visiva a cui sottoponeva, delle volte, i suoi ospiti. “Non riesci a camminarci sopra?”, chiedeva divertito una volta che il suo interlocutore provava a passare senza calpestarlo. In effetti no: qualcuno ci metteva i piedi senza problemi, molti lo scavalcavano.

Lo studio di via San Domenico era lo spazio dove lavorava quotidianamente e accoglieva i suoi ospiti. “Se non riesci a darmi del tu, almeno dammi della signoria”, aveva scherzato in quell’occasione. La mattina arrivava in studio intorno alle nove, poi pausa pranzo, infine chiudeva alle sette circa per tornare a casa a riposare. Lo studio è una specie di museo informale dove sono conservate alcune opere realizzate nell’arco di decenni, il laboratorio all’interno del quale proseguiva nel suo lavoro di ricerca artistica, e un luogo di giochi visivi, appunto, con cui l’artista cercava di sorprendere i suoi visitatori, mettendoli alla prova. Quando arrivavi ti faceva accomodare, ti faceva indossare degli occhiali 3d e iniziava a mostrarti quello a cui aveva lavorato negli ultimi giorni, la linea di ricerca che ha percorso negli ultimi anni, da quando, cioè, ha smesso di essere un artista da “appendere al muro”: i Cortronici, opere di video-arte dove l’immagine interagisce con la musica, e viceversa. Forme colorate che Tonino creava al computer, le componeva, scomponeva e ricomponeva, le faceva muovere nello spazio seguendo traiettorie invisibili e imprevedibili. Pulsano, scattano, si dilatano e accartocciano. Casula le espandeva e le contraeva, le bucava e le faceva interagire con altre forme, seguendo un procedimento che potremmo definire “casuale” e razionale a un tempo. Casula lo rivendicava: le “forme” delle sue opere nascevano da un segno iniziale e poi si evolvevano senza che l’artista sapesse bene dove sarebbe andato a parare. Lo scopriva mano mano che procedeva nella produzione dell’opera, facendosi sorprendere egli stesso. “Portare le persone qui e vederle sbalordite: questa è una cosa che mi piace molto. Si chiedono: ma come ha fatto? I bambini non si scompongono più di tanto. Gli adulti indifferenti dicono: boh, gliel’ha fatto il computer. Poi c’è chi si fa domande e si pone dei problemi. Aiuto loro a capire come succedono le cose: li libero dalla magia e creo un esercizio mentale sul perché e sul come si arriva a un certo risultato”, aveva detto l’artista.

“Io vengo dal Medioevo”. Casula nasce nella Barbagia di Seulo nel 1931 e viene alla luce una seconda volta 33 anni dopo. Letteralmente. Fino al 1964 l’artista ha vissuto con un problema alla vista molto grave: era semicieco. Tecnicamente si trattava di una rarissima ectopia congenita della pupilla con cristallino lussato. Per vedere le cose doveva avvicinarle al naso; il resto era «una nebbia colorata al pastello, che andava infittendosi nella lontananza». Per anni Tonino ha costruito la sua idea del mondo attraverso il rapporto con le immagini, in particolare – quando era ancora un ragazzino – grazie ai lavori del padre fotografo, alle illustrazioni che trovava nelle riviste, agli amici che gli raccontavano ciò che gli stava intorno: proiettava nella “nebbia” la sostanza di quelle immagini e dava forma e contorni alla realtà. Una volta adulto, e quando era già pittore da anni, è stato operato agli occhi e in quel momento si è trovato di fronte a un problema non da poco: ha dovuto imparare a vedere. A pensarci bene, questo è uno dei dati più sbalorditivi della biografia dell’artista. È anche per questo che Casula è stato così interessato al tema della percezione visiva e degli inganni ottici. “Dopo l’operazione ho iniziato a vedere bene e quindi a vedere le cose in modo diverso”, disse. “Ma questo non mi ha portato a essere un pittore figurativo più accurato, puntuale, preciso. Anzi”.

Succede che all’istituto dei ciechi si apre un corso per bambini che vivevano nella stessa condizione di Tonino. Anche lui decide di partecipare chiedendo che le lezioni, tenute da Nereide Rudas, fossero impostate sul tema della Gestaltheorie, la scuola tedesca di psicologia della percezione visiva nota in Italia come Teoria della forma. In quel periodo andava molto l’Optical-art, che si alimentava delle teorie della gestalt e delle sue leggi sulla percezione. «Ho iniziato a imbottirmi di gestaltismo e il mio lavoro è cambiato completamente. Ho cercato di rappresentare le modalità della mia visione precedente e ho cominciato a domandarmi come si formano le immagini». Il suo apprendistato di neovedente cerca di trovare un riscontro anche nel lavoro di artista, attraverso quelli che Tonino chiama “rumori visivi”. “Anche se era più urgente imparare a riconoscere le persone per strada”. In quel periodo inizia alcuni esperimenti basati sulla ‘visione’, che culminano nella scoperta del transazionalismo, una scuola americana di psicologia della percezione che risulta, agli occhi di Casula, più persuasiva di quella tedesca. Il confronto con quelle teorie porta alla nascita a Cagliari nel 1966 del Gruppo transazionale, fondato insieme a Ermanno Leinardi, Ugo Ugo e Italo Utzeri: insieme a loro Tonino cerca di sviluppare opere seguendo i dettami della scuola americana e si propone anche di stabilire uno statuto scientifico dell’arte. I giochi sui limiti percettivi lo portano a inventare e sperimentare “le più varie forme percepibili e suscettibili di produrre otticamente indeterminatezza, inganno e ambiguità tra il vero e il falso, il reale e il simulato”, ha scritto lo storico d’arte Corrado Maltese, allora docente a Cagliari, che tenne a battesimo il gruppo: “Cavità, convessità, trasparenze, rilievi, provocazioni retiniche, colorazioni cangianti, ecc”. Tra contrasti cromatici, ambiguità e giochi ottici, la ricerca di Casula in quel periodo è una sfida, con se stesso e con il “pubblico”: inflessibile, razionale e coerente.

Quello che caratterizza l’artista è la necessità di appropriarsi degli strumenti di comprensione del reale e di numerosi strumenti espressivi per trasmettere conoscenza (non è un caso se Casula sia stato un insegnante e abbia scritto alcuni celebri libri di divulgazione dell’arte, usciti per Einaudi). Questo si traduce in una ricerca continua, sugli strumenti e sulle forme: pennelli, inchiostri serigrafici, spruzzatori, vernici nitro acriliche, e ancora forbici, lame, fustelle, sagome. E poi i materiali, che fossero “semanticamente vergini”: plexiglass, masonite, forex, pvc. Fino ad arrivare al computer, che inizialmente vede con sospetto ma che un uomo come lui – curioso e razionale – non può non abbracciare integralmente. Prima con la serie delle diafanie, opere che tecnicamente sono schermate video fotografate e poi proiettate come diapositive in dissolvenza incrociata, una dopo l’altra. Poi coi Cortronici. Casula non aveva ancora smesso di sorprendersi e di cercare. “Racconto sempre la storia di quel signore sotto un lampione che cerca una chiave che ha smarrito. È notte. Arriva qualcuno e gli chiede: “Ha perso qualcosa?” “Sì, ho perso la chiave”, risponde. “Ma l’ha persa qui?”, chiede ancora. “No no, l’ho persa laggiù”. “Ma allora perché la cerca qui?”, domanda. “Perché qui si vede meglio”. La chiave è una metafora, Quando cerco non me ne frega niente di trovare la chiave: al limite rientrerò dalla finestra. Quello che mi interessa è la ricerca. In realtà non posso neanche dirmi cosa sto cercando, perché se lo sapessi probabilmente saprei meglio dove cercare. Preferisco entrare nel bosco per i funghi, e smarrirmi, perché se non riesco a uscire magari posso trovare altro”.

Casula ha attraversato numerose stagioni ed è entrato in contatto con tutti i grandi artisti sardi del Novecento. Dal Gruppo ’58 che si formò a Cagliari intorno alle figure di Primo Pantoli e Gaetano Brundu fino al Gruppo transazionale di cui fu il principale animatore. È stato amico di Maria Lai e ha collaborato con lei realizzando il video della celeberrima performance di arte relazionale svoltasi nel 1981 a Ulassai, Legarsi alla montagna (leggi l’intervista a Casula per i quarant’anni della performance). Anche lei frequentava il giro dell’Arte Duchamp, galleria e libreria che allora era un punto di riferimento per la scena che gravitava intorno a Cagliari. “Credo che le sue opere non figurative siano state alimentate dalle frequentazioni con la galleria e con il gruppo di artisti che si riunivano lì”, disse Tonino. “Cercavamo nuovi materiali, perché quelli vecchi erano già carichi di significati. Se tu dipingevi un disco giallo con una tempera, quello era un sole. Se lo dipingevi con vernice per automobili, quello era Fiat. Servivano materiali carichi di significati del presente. Io utilizzavo il plexiglass, lei invece recuperava materiali legali alla femminilità come il filo. I libri con le pagine di stoffa, le sue lavagne, erano operazioni arditissime. Non ci scrive niente e lo chiama libro. Non si scrive nulla e la chiama lavagna. Questa è un’operazione che condivido: lasciare lo spettatore indeterminato”.

Casula ricordava con nostalgia quegli anni cagliaritani, quando la città – diceva – era un luogo vivacissimo dove succedevano cose, c’erano scambi continui e all’università insegnavano i migliori cervelli d’Italia. “C’era un confronto costante con personalità di altissimo livello. Tutti passavano per il nostro studio, che allora era a Castello. In quel periodo noi eravamo un po’ irrigiditi sulla ricerca di uno statuto scientifico che preservasse l’arte. Allora sembrava una stronzata totale. La gente cadeva dalla sedia: ma cosa c’entra la scienza con l’arte. L’idea non piaceva soprattutto agli artisti. Ricordo Pantoli che mi diceva, esasperato: tu con queste scienze mi hai rotto i coglioni. Ma ci divertivamo e c’era una temperie culturale bellissima”. La sua idea di arte era quella di mettere in funzione la mente di chi osserva le opere. “Dopo averle viste, non sai se ti ho preso per i fondelli oppure se semplicemente non hai capito. Preferisco pensare che non abbia capito. Anche perché non c’è niente da capire. Ma ipotizziamo che si scarta l’ipotesi che ti abbia preso in giro. Allora devi per forza pensare e in quel momento ho fatto la cosa più importante che ci sia: ho utilizzato la parte migliore delle persone, che è la mente. Ho fatto qualcosa che non può non confonderti le idee. E quando provi a mettere ordine, un po’ migliorato, forse, esci fuori”.

Poco prima dei saluti dopo l’intervista a Tonino venne un’idea. “Adesso voglio fare con te un esperimento. Siediti qui”. Nella sala principale dello studio c’è un cubo nero appeso al soffitto: sembra sospeso per aria. “Questo si chiama cubo di Necker. Ha una geometria cavaliera, così la chiamano. Non è possibile indicare quale faccia sia rivolta verso l’osservatore e quale sia dietro al cubo. Questa è un’immagine ambigua per il cervello e dopo un po’ le due facce si alternano. Ora devi mettere una mano davanti a un occhio e provare a portare avanti lo spigolo che sto indicando. Fissalo. Noterai che quello non è più un cubo, ma un tronco di piramide”. Ed è proprio così. “Quello che vediamo è un fatto culturale. Quando la visione è scorretta ti rendi conto che non vedrai mai un quadrato, ma tutte forme diverse”. Poi disse di tenere ancora l’occhio chiuso e iniziò a far girare il cubo. “Adesso togli la mano. Non vedi che sembra giri all’inverso? Ora muovi la testa a destra e sinistra. Non ti sembra che sia fermo?”. L’interlocutore era incuriosito e disorientato, Casula rideva e si divertiva. E forse è questa l’immagine più nitida e sintetica dell’artista: un uomo che non aveva mai smesso di ridere, di aver voglia di stupire e spiazzare.

Andrea Tramonte

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