Cross di Ibarbo, Pinilla colpisce al volo e prende il palo. Fiato sospeso dei tifosi, la ribattuta capita ancora al cileno che insacca. Mancano appena due minuti al novantesimo, lo stadio Sant’Elia che illumina la notte esplode, ed esplode anche il bomber rossoblù che senza pensarci due volte sale le scalette delle tribune in tubi Innocenti della curva nord e si lascia abbracciare dal pubblico come una rockstar consumata.“Se la partita fosse finita lì, sarei arrivato nel punto più alto delle tribune” dichiarerà nel post match. “È bellissimo festeggiare insieme ai tifosi del Cagliari, sono due anni che giochiamo senza pubblico. Questa rete la volevo condividere con tutte le persone presenti allo stadio. Io qui sto benissimo e sono contento, voglio restare a lungo” aggiungerà.
Lo stadio senza barriere è la nuova idea del calcio nostrano. Mauricio Pinilla che abbraccia il pubblico un esempio da imitare. Ma tutto nasce a Firenze dove il pubblico risulta ancora più vicino alla squadra, senza reti o ostacoli di alcuna natura. Per molti questa Fiorentina che vola, che rimonta due gol alla Juventus e va a stravincere creando una delle giornate più entusiasmanti della storia del club – in virtù anche dell’antica rivalità con i bianconeri – si deve anche alla vicinanza del pubblico. E per il Cagliari il destino sembra segnato: quando sarà tutto pronto per ospitare i 13 mila spettatori previsti nel progetto, l’abbraccio collettivo sarà simile ad un concerto rock dove tutti cantano all’unisono le gesta di questi ragazzoni in maglietta e calzoncini.
Tutto molto bello e coinvolgente. Quando vanno bene le cose, è sempre così. Ma cosa succede se una squadra va male? Se perde le partite, o ha difficoltà a vincerle contro avversarie alla propria portata? Che succede se la squadra avversaria ha giocatori di colore? Ha ragione Achille Serra, ex prefetto di Roma ed ora responsabile della Lega calcio per gli impianti e la sicurezza, quando dice che ci vuole apertura mentale per abbattere tutte le barriere presenti negli stadi, nel prevedere stadi all’inglese dove lo spettatore si trova ad un metro dal suo beniamino che batte un fallo laterale. Ma più che apertura mentale ci vuole una operazione culturale che abbatta soprattutto le barriere mentali degli ultrà che scelgono la domenica e lo stadio per sfogare i propri istinti.
Lo stadio Sant’Elia ha in dote un episodio sconcertante: il 17 novembre 2002 un tifoso riuscì ad entrare in campo durante la gara e colpì con un pugno alla nuca il portiere del Messina Emanuele Manitta, procurandogli una prognosi di dieci giorni per trauma cranico e una commozione cerebrale. Il tifoso in questione se la cavò con una ammenda e l’interdizione dallo stadio per tre anni. Il popolo rossoblù reagì con sdegno, e continuò a tifare nella legalità mantenendo il tratto che lo ha contraddistinto per anni rispetto alle altre tifoserie. Nulla è mai più successo.
Ma che succede se dovesse accadere di nuovo, magari in un altro stadio? “All’interno degli stadi c’è oggi poca violenza, le tifoserie hanno capito che avrebbero danneggiato la squadra e non ci sono stati più gravi episodi di violenza” dice Achille Serra. Eppure è bene ricordare i gravi fatti di due anni fa quando gli ultrà del Genoa presero possesso di una partita di fine campionato e costrinsero i giocatori a svestire la maglia e a lasciarla in mezzo al campo in segno di disonore. O qualche anno prima ancora quando i tifosi dell’Atalanta che distrussero le barriere della curva e vennero calmati soltanto dal capitano Cristiano Doni.
E che potrebbe succedere stasera quando il Cagliari si ritroverà all’Olimpico al cospetto di una Lazio rinomata per avere una curva dedicata a croci celtiche e saluti romani, o cori razzisti nei confronti dei calciatori di colore avversari, o la violenza ripetuta fuori dallo stadio? Che succede se la Lazio perde e il Cagliari diventa responsabile del secondo esonero in una settimana (sabato scorso è toccato al bravo Maran pagare il pessimo avvio del Catania)?
L’apertura mentale ci potrà essere solo nel momento in cui si adopererà una rivoluzione culturale nell’intendere lo stadio e il tifo. Gli inglesi non sono dei santi, ma hanno capito che se vogliono sfogarsi lo possono fare fuori dall’impianto, in circostanze che nulla hanno a che fare col calcio. La cultura del tifo si esplica con i cori a favore della propria formazione, seppur retrocessa o in difficoltà. L’importante è dare il supporto di cui i calciatori hanno bisogno, magari le cose cambiano. L’apertura mentale per permettersi un calcio senza barriere sta proprio qua: nell’incitare alla sportività e non alla violenza. Come compiuto dai tifosi del Cagliari sabato scorso nonostante lo svantaggio, nonostante la difficoltà nell’approfittare del vantaggio numerico in campo, nonostante mancasse poco alla fine e lo spettro di un nuovo pareggio fosse nell’aria. Fino a Pinilla, all’abbraccio collettivo, all’apertura mentale. A Cagliari si può.
Simone Spada