La storia di Patta, da Oristano a Tokyo: amava il calcio e ora è medaglia d’oro

A lanciare Lorenzo Patta nel mondo dell’atletica è stato Francesco Garau, docente di educazione fisica e uno degli allenatori più importanti in Sardegna. Qualche anno fa lo ha strappato ai dribbling e ai gol, perché Patta amava il calcio, giocava in un club che è stato anche in serie C, il La Palma-Monte Urpinu di Cagliari. Poi il resto è venuto da sè: prima l’opera di convincimento del maestro. Poi i risultati. E l’oro, il primo sardo alle Olimpiadi in atletica. “Un’emozione indescrivibile – spiega all’Ansa Garau – ho seguito la gara solo con mia moglie. Non volevo distrazioni. Ci credevamo. Ma arrivare all’oro forse era un sogno troppo azzardato. Mi ha impressionato la freddezza. Ma lui è sempre stato così. Anche se poi alla fine è crollato in un pianto, questo mi ha un po’ sorpreso. Un ragazzo taciturno che si fa voler bene, ecco. Che in gara riesce a vincere ogni emozione: non ho mai visto nessuna sbavatura in questi giorni”.

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Il pezzo forte di Lorenzo? “Lui è più un duecentista si esprime meglio in curva. Forse corre meglio in curva che in rettilineo”. Una storia nata a scuola, allo scientifico Mariano IV di Oristano: “Me l’ha segnalato un collega, Marco Meletti – spiega Garau – dai giochi studenteschi aveva visto delle buone doti. Ma c’era un problema. Lorenzo era un calciatore che segnava gol a grappoli. La cosa più difficile è stato convincerlo a dedicarsi all’atletica. Piano piano ci siamo riusciti: prima faceva tutti e due, il campionato di calcio sino a maggio, poi l’atletica d’estate. Poi sono arrivate le vittorie a livello allievi. E lì si è convinto anche lui”.

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Il primo cambio della staffetta d’oro è stato un capolavoro: “Sì – racconta Garau – perché bisogna essere bravi a passare il testimone alla massima velocità del ricevente. Che era proprio il più veloce, Jacobs“. Ora Garau quasi si mette da parte. Ma anche lui ci ha messo del suo: “Diciamo che sono riuscito a tirare fuori le sue qualità, io l’ho aiutato nel creare un giusto ambiente, nella suddivisione del lavoro e sì, anche nella metodologia, con la cura del gesto e nella parte biodinamica”. Ma l’allenatore oristanese quasi non si vuole soffermare su questi aspetti e prendersi i meriti. “Di questi tempi si parla troppo di mental coach – spiega – io ho solo cercato di aiutarlo a dare il meglio di sé”.

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