Gigi Datome, il primo sardo in Nba: “Porterò la mia terra negli States”

A 26 anni la ruota della vita può fare un giro particolare. Aspetti per anni che il tuo sogno si avveri, che quelle voci che si rincorrono quotidianamente siano vere. Oggi, Luigi “Gigi” Datome è un giocatore dei Detroit Pistons, franchigia della Nba, il massimo campionato di basket al mondo.

Datome la scorsa settimana è volato in America e ha firmato un contratto biennale davanti a Joe Dumars, non solo general manager dei Pistons, ma anche uno dei giocatori più forti della storia del team. Con quella firma è diventato il quarto giocatore italiano a calcare l’attuale panorama cestistico americano dopo Andrea Bargnani (New York Knicks), Marco Belinelli (San Antonio Spurs) e Danilo Gallinari (Denver Nuggets), e il primo giocatore sardo ad arrivare questi livelli.

E’ questo un riconoscimento di autentico valore per un giocatore che già a 15 anni veniva visto come una futura stella del basket italiano. Lo prese Siena, lo svezzò facendolo girare per l’Italia e quindi l’approdo a Roma, dove è diventato il capitano della Virtus ed ha ottenuto un tale affetto che il popolo romano riserva di solito solo agli imperatori calcistici come Francesco Totti. Datome oggi diventa il simbolo di una Italia cestistica che cresce, ed un modello per i tantissimi ragazzi, sardi e non, che si avvicinano a questo sport.

Prima domanda d’obbligo: come ci si sente ad essere il primo giocatore sardo ad approdare in Nba?
L’emozione è tanta, la gioia anche. Sia per me ma anche per la mia terra, che porto sempre nel cuore con grande orgoglio.

Sei un giocatore dei Detroit Pistons. Come è avvenuta questa scelta? Come sei entrato in contatto con loro e come ti hanno convinto rispetto ad altre squadre?
È stata una scelta ponderata ma allo stesso tempo anche molto semplice. Fortunatamente avevo la possibilità di scegliere fra varie franchigie, ma il progetto che i Pistons avevano su di me onestamente mi intrigava molto. I loro modi e le loro idee tecniche hanno fatto la differenza. Ho fatto la mia scelta puntando su quello che volevano e potevano darmi. Loro cercavano un tiratore, io una squadra che mi facesse giocare. I Pistons mi assicuravano minuti sul campo e non solo in panchina. Mi hanno fatto sentire la loro fiducia. Per questo ho deciso di scegliere Detroit.

Qual è la tua paura più grande a pensare che da novembre sarai un giocatore Nba? E quale invece l’idea che ti mette in fermento, che ti fa sognare ogni notte le sfide con Lebron James o con Kobe Bryant?
Per natura io non ho paura di nulla, ma non lo dico con spocchia. Tutt’altro, perché penso che avere paura serva a poco. Si va in campo e si gioca. Punto. Certo che giocare contro Lebron o Kobe è un qualcosa che mi stimola molto. Li ho visti finora in televisione, sono giocatori straordinari. Ora che so che avrò la possibilità di sfidarli non vedo l’ora di scendere in campo. Se c’è qualcosa però a cui mi devo abituare è la routine del loro campionato. Lo scorso anno sapevo di avere la partita la domenica. O in casa o fuori. Ti organizzi quindi la settimana in base alle necessità del weekend. In Nba giochi 82 partite a stagione senza regole fisse: puoi giocarne tre in casa e due fuori, come è possibile il contrario. Sarà dura abituarsi ma non vedo l’ora.

Qual è stato il commento della tua famiglia in merito alla scelta? Chi ha reagito con più entusiasmo?
In questo momento così bello ho capito di avere attorno tantissima gente che mi vuole bene. Tutta la mia famiglia era felicissima per me, ma le persone che ho attorno paradossalmente erano perfino più contente di me per questa chiamata. Sono state sensazioni davvero belle.

Datome bambino sognava l’Nba o voleva semplicemente diventare un giocatore di basket capace di giocare ad alti livelli?
L’Nba è il sogno di tutti. Quando si fa qualcosa ci si pone come obiettivo sempre il massimo. E da bambino vedevo quei giganti americani come inarrivabili. Poi il sogno è diventato realtà, ma ora deve iniziare per me una nuova vita, perché devo dimostrare di valere questo livello, con umiltà e sacrifici.

Quando ti sei accorto di aver fatto il grande salto, ovvero di essere diventato un giocatore davvero bravo da poter ambire all’Nba? Chi è la persona che desidereresti ringraziare per essere il giocatore che sei?
Quando qualcuno, scout e Gm, ha iniziato a venirmi a vedere. Ognuno di loro pagava un biglietto aereo per venirmi a vedere dall’America. E siccome l’hanno fatto in tanti ho iniziato a pensare che ci poteva realmente essere qualcosa di tangibile e reale. Devo ringraziare la mia famiglia, che mi ha sempre sostenuto in ogni cosa che ho fatto e in ogni scelta. E anche i miei amici, quelli veri, quelli che mi sono stati a fianco anche quando le cose non andavano così bene.

Cosa porterai con te in America? Sia da Roma, che dalla Sardegna.
Porterò gli scorci di mare, i tramonti e l’affetto della mia terra. In più i sorrisi e l’affetto della mia famiglia e dei miei amici, che so che mi staranno vicini come se giocassi a 10 metri da loro. Di Roma mi porterò dietro sicuramente il bagno di folla dei tifosi.. Aver ricostruito la passione per questa squadra è il regalo più grande di questi cinque anni a Roma. Aver chiuso la mia esperienza in quella città con questa grande stagione è stato veramente fantastico.

In molti, quando uscivano svariati rumors sul fatto che non firmassi ancora nessun contratto con franchigie Nba, hanno iniziato a sognare un tuo approdo a Sassari. Che ne pensi del lavoro fatto dalla società in questi anni? Nel tuo futuro (ma anche nel tuo passato) c’è la vaga idea di dire “ma sì, finisco la mia carriera in Sardegna, Sassari sarebbe il posto ideale”?
Sassari è una società che sta lavorando alla grande, con serietà e professionalità. I risultati ottenuti in questi anni parlano da soli. E sono sicuro che anche il prossimo anno farà bene. Sul mio futuro, come ho risposto giorni fa a chi mi chiedeva di un ritorno a Roma voglio essere chiaro: oggi non posso promettere nulla, ma allo stesso tempo non mi sento di escludere nulla. Tutt’altro… Roma, così come la Sardegna, mi stanno nel cuore.

Simone Spada

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