Una visita al Museo Nazionale di Cagliari per vedere le grandi statue Mont’e Prama di cui tutti parlano è raccontata su facebook. Il post, firmato da Roberto Murgia e condiviso su diverse pagine del social network, parla di personale svogliato, biglietti dal costo incerto, assenza di informazioni e didascalie. Resta solo una cosa da fare: chiedere aiuto ai Giganti.
Come dice un mio amico, le stagioni sono quattro. Estate, autunno, inverno e cazzoditempo. Siccome siamo in quest’ultima e la pioggerella alle ottoemezzo pigara mali, decido di guardare dal basso in alto i famosi giganti cabraresi.
“Tanto non ci sarà nessuno, all’apertura del primo giorno a pagamento dopo due gratis e uno di riposo. Ma figurarì…”.
E infatti sconchiando in piazza Arsenal vedo una grossa fila ammassata davanti al cancello chiuso della cittadella dei musei.
Ma figurarì!!!
(La mia riflessione guadagna tre punti esclamativi).
Come si muovono gli ombrelli colorati, capisco che si tratta di una scolaresca costretta e rimetto in tasca i punti esclamativi.
Era assurdo solo pensare che l’eroica pubblicità dell’evento, fatta ad uso interno e senza la dovuta risonanza internazionale, avesse mosso così tanto le grigie coscienze casteddaie. Dopo un dribbling agli ombrelli che nemmeno diegoarmando all’inghilterra, mi stoppo davanti alle porte chiuse davanti alla biglietteria. Rispolvero il linguaggio muto imparato alle elementari e improvviso una rissa da acquario con un personaggio che sta dentro.
Al suo “apre alle nove”, rispondo per le rime che sono le nove e cinque.
Faccio mio anche il destino dei pochi che intanto si accodano.
Poco distante un tale sulla cinquantina, alto secco e con la mosca al mento, legge il giornale in piedi. Come i cavalli, avrebbe detto mia mamma. Bofonchia che c’è da attendere e “se vuole dica a me”.
Chiedo cosa sia successo e faccio presente che, malgrado generosi tentativi di occultarlo, nel loro sito l’orario di apertura dice “nove”. “Ci sono problemi con i biglietti, non si sa quanto si debba far pagare. Sa, ci sono tre mostre diverse…”.
Scuote il fattoquotidiano dove sicuramente legge di disservizi italici che lo fanno fremere di sdegno e tira su col naso. Eh, c’è freddo in cazzoditempo.
Un uomo dall’aria dirigenziale con trench canefuendi e borsa lisa penetra le porte e svanisce nella biglietteria sotto attacco. Ricompare come per incanto un minuto dopo e lo acchiappo.
“Scusi, lei lo sa (vero?) che siamo qua fuori perché dentro non sanno quanto farci pagare? Me l’ha detto lui. Faccia il favore, ci pensi lei”.
Moscalmento non raccoglie e non smuscia, canefuendi si lascia sfuggire “è una follia”. La versione in prosa di quanto sostenevo io.
Com’è, come non è, ci ritroviamo dentro, al ritmo dei timbri sparati a caso dagli impiegati su blocchi di biglietti che (per il chiaro attroppelio) sfuggono di mano, un po’ come metafora dell’intera situazione.
“Lei è il primo”. L’inedito avvenimento che a Cagliari qualcuno sganci danaro per entrare al museo genera negli addetti un incredulo entusiasmo, che disvela una volta per tutte i numerosi strati di cialtrona improvvisazione.
“Va anche da lilliu?”. Capisco che c’è una seconda mostra dedicata al grande vecchio ed esagero, più che altro per non incasinarli ancora.
Ingenuo come sono, chiedo se ci sia un pieghevole, una brochure, un libretto.
D’altronde, se per due pezzi di bronzidiriace trovati in mare arrivano i giapponesi a frotte, l’avrai voluto stampare un duerighe da distribuire almeno a quelli di mulinubecciu per illustrare queste decine di statue di tremila anni fa?
“E’ tutto lì”.
Ragazzi. Giuro che lì non c’era ovviamente niente di attinente prama mostra giganti e parolechiave collegate.
Con il mio biglietto n°0001 e nessuna traccia neanche vaga su dove dovessi andare, mi tuffo nella pancia del museo. Bronzetti fighissimi, vasellame fenicio e ateniese, plastici di metropoli nuragiche. Tutto molto degno di una (altra, futura) visita.
Svaccato su una sedia, moscalmento prosegue a scandagliare il fattoquotidiano come se non ci fosse un domani. E’ in tenuta da aperitivo e “prova a chiamarmi usciere e vedi”.
Taglio corto e indico l’ascensore. “I giganti a che piano sono?”.
Mi dice al terzo. Un attimo prima di salire, con la coda dell’occhio vedo due enormi statue proprio in fronte alla postazione del lettore di travaglio.
“Quelle sono copie, vero?”. “No, originali”.
Non rido perché capisco che non è uno scherzo.
Una delle statue è splendida e le dedico un paio di intensi ritratti. Gli occhi a cerchietto un po’ allucinati e la forma del viso mi ricordano fabio, un mio antico e valoroso compagno di hockey, che infatti chiamavamo bronzetto.
Al terzo piano completo la visita, imbattendomi in altri personaggi grotteschi. Uno tira su un incongruo rigore, imponendomi di non poggiare la sciarpa dove lui non vuole. Un altro pulisce con la manica qualche orma dalle pedane, borbottando “anti imbruttau tottu” come se il problema fosse quello.
Incalza la scolaresca armata di smartphone sino ai denti. Scatto le ultime foto e scommetto sulla pausa caffé di moscalmento.
Ho i miei pensieri.
Fuori mi aspetta cazzoditempo che si è mangiato la primavera. Dentro ho toccato con mano perché non ce la possiamo fare a fare i calabresi che di due statue greche ripescate in mare hanno fatto l’orgoglio regionale. Noi siamo alla pubblicità su videolina, al museo più pazzo del mondo e al dibattito “ci credi ai giganti”.
Scommessa persa.
Il mio uomo non molla la sedia e tantomeno il fattoquotidiano.
Seguendo un istinto maligno, gli regalerei volentieri una dignitosa divisa da usciere di una volta, quando c’era carosello, con la scritta “jo condor” sul cappello a visiera.
Ma oggi sono buono. Passo davanti a fabio che mi strizza l’occhio a cerchietto e finalmente gli rivolgo la parola, indicando verso dietro.
“Gigante, pensaci tu”.
Roberto Murgia