Paolo Fadda, già amministratore del Banco di Sardegna, è conosciuto dai lettori di Sardinia Post per i suoi interventi sulle tematiche economiche. Ma è anche un e un memorialista e un attento osservatore della società isolana. In tale veste ha scritto questa nota sulla nostra Resistenza.
Sono passati settant’anni da quel 25 aprile del 1945 – giorno con cui si ricorda la “liberazione” del nostro Paese dal nazifascismo – ed io in quel giorno c’ero, proprio qui in Sardegna, a Cagliari. Ero studente liceale nel vecchio Dettori, quello sistemato nell’ex convento di Santa Teresa a due passi dalla piazzetta del Santo Sepolcro. Ricordo ancora come fosse ora, che il nostro professore d’italiano, Vinicio Mocci, ci disse che da un comunicato di radio Londra aveva appreso che gran parte dell’Italia del nord era insorta contro i tedeschi ed i fascisti. Era il primo importante segnale che quella guerra, iniziata il 1° settembre del 1939, era ormai giunta al termine con l’attesa sconfitta del nazifascismo.
Mi capita spesso di ritornare a quei giorni, a quelli che furono i miei pensieri d’allora, se avessi ben compreso appieno cos’era stato il fascismo e perché in tanti nelle nostre famiglie erano stati fascisti. E del perché c’era stata poi una generale esultanza nel salutarne la caduta e nel gioirne per la definitiva sconfitta. Ora, a mano a mano che ci si allontana da quel tempo, quelle sensazioni d’allora tendono a diventare più lucide e meno schematiche. Anche perché qui in Sardegna, in quest’angolo nascosto della storia, non si ebbe quasi nessuna contezza di quel che rappresentarono veramente i valori ideali della Resistenza. Un arguto avvocato sardista, Bartolomeo Sotgiu Pesce, mi disse anni dopo che il fascismo era giunto e se ne era andato via dall’isola grazie soltanto a due telegrammi giunti da Roma: quasi a significare che l’isola era entrata ed uscita nell’ “era fascista” così come secoli prima era avvenuto il passaggio dagli spagnoli agli austriaci e, in seguito, ai Savoia. Cioè in completa indifferenza, che è poi la sorella della cieca sudditanza ai voleri altrui e la cugina del più flaccido conformismo.
Non aveva quindi molto torto Sotgiu-Pesce, dato che quelle due rivoluzioni (sia quella fascista che quella antifascista) non furono altro che delle semplici evoluzioni, non avendo provocato profonde trasformazioni nelle gerarchie dell’establishment dell’isola. Può essere, questa, una lettura molto radicale, di quegli eventi, ma è indubbio che quei passaggi furono per l’isola quasi una sorta di “continuum”, senza scosse né traumi.
La mia generazione, quella cioè che ha vissuto il prima e il dopo del fascismo, è stata quindi segnata, profondamente segnata, da non aver avuto modo di potersi rigenerare con il balsamo della Resistenza. Ne rifletto ancora oggi, dopo 70 anni, accingendomi a ricordare quel giorno, aprendomi con difficoltà e pudore, a queste riflessioni.
Sono quindi d’opinione che le élite sarde del dopofascismo avessero molto risentito, anche nella loro identità democratica, di questa liberazione dal fascismo ottenuta soltanto grazie alle lotte ed ai sacrifici altrui. È certamente doloroso ammetterlo, ma forse è un’opinione molto vicina al vero.
C’è però un valore che in quei giorni anche in Sardegna sarebbe divenuto il nuovo credo dell’impegno sociale e politico. Un valore che, a pari della Resistenza, avrebbe mobilitato ed unito volontà popolari per ricostruire quel che la guerra aveva distrutto, quel che la dittatura aveva annullato. Si trattava di un qualcosa di straordinario, inusuale forse per la storia dei sardi. Quindi, tottus impari, uniti per ridare un futuro alla propria terra, colpita a morte dalle bombe altrui. Pareva uno straordinario balsamo rigenerante venuto fuori dalle macerie fumanti della guerra perduta: lo si sarebbe chiamato, giustamente, Ricostruzione. Lo si riempì di speranze e di volontà, di coraggio ed anche di ingenuità, perché la città, l’isola, la patria potessero risorgere subito dai disastri, fisici e morali, della guerra. Quasi fosse, per tutti noi di allora, un imperativo categorico, un ordine da non trasgredire, una mobilitazione che non consentiva assenze o diserzioni.
Quel 25 aprile del ’45 a Cagliari eravamo rientrati in più di 70 mila, le scuole erano state riaperte, due linee tramviarie avevano ripreso a funzionare e sotto i portici della via Roma erano riapparsi i tavolini… All’Eden si proiettavano i film della Fox e nel vecchio campo di via Pola si giocava il “Torneo Pro Patrioti” fra le squadre dell’Esercito, dell’Aeronautica e del Cagliari. Era la prima vera festa, una festa manna, che celebrava – tra gioie e nuove speranze – la prima importante tappa della nostra Ricostruzione.
La Resistenza di noi sardi, quella che andiamo ora a festeggiare nel suo settantesimo anniversario, va chiamata quindi Ricostruzione, ed anche se i due vocaboli possano apparire antitetici, essi esprimono, a mio parere, un identico grande valore ed un eguale emblematico significato. Che è poi quello di ricordare come i sardi avessero saputo mantenere ben alta la bandiera dell’identità patria e dell’amore per la propria madre terra. Anche quando tutt’intorno c’erano solo morti e macerie.
Ricordare quei giorni, quel che ci mancò allora, ma anche quel che riuscimmo a fare molto meglio e molto prima di altri (pensate a Coventry ed a Napoli), mi pare che sia doveroso, perché tutto questo rimanga fra i più cari tesori della nostra memoria collettiva.
Paolo Fadda