Sognava di diventare scrittore, Robert Capa, invece raccontò la realtà con un medium diverso: la macchina fotografica. E se, come disse il suo amico romanziere John Steinbeck “la macchina fotografica non deve essere un freddo mezzo meccanico. Come la penna, sarà buona quanto l’uomo che la usa. Può essere infatti un’estensione della mente e del cuore”, allora Capa è stato, nello stesso tempo, un grande artista e un prezioso testimone del suo tempo.
Il fotogiornalismo, forse, non è nato cronologicamente con lui, ma sicuramente egli ha contribuito a modellare la figura del reporter di guerra non solo coraggioso e abile, ma impegnato a descrivere i conflitti tragici del “secolo breve” nelle azioni concitate e spettacolari, come in quelle drammatiche, dove la morte e il dolore diventato inquietanti protagonisti. D’altronde, lui stesso affermava come i conflitti siano “un inferno che gli uomini si sono fabbricati da soli”.
La bella mostra che il Man di Nuoro dedica a questo straordinario fotografo (“Una vita leggermente fuori fuoco”, dal 7 marzo al 18 maggio, assolutamente da non perdere) racconta in 100 scatti una esistenza, certamente anche avventurosa, dedicata all’arte dell’immagine fissa, influenzata dalle proprie convinzioni politiche progressiste, dall’amore per la pittura e per il cinema, a cui marginalmente Capa collaborò (come direttore della fotografia e, soprattutto, come notevole fotografo di scena).
Esule dall’Ungheria, dove era nato con il nome di Endre Friedman, viaggia costretto o per scelta, documentando le guerre e gli avvenimenti a lui contemporanei. Si inizia con una foto straordinaria che ritrae un comizio di Trotsky nel 1932. L’uomo politico russo è un esule come lui. L’immagine ha uno sfondo quasi costruttivista, mentre a evidenziare la passionalità del personaggio sono le mani, che quasi coprono il volto, in una accentuazione della gestualità emotiva del personaggio.
Le foto dei conflitti sono fermo immagini di tragiche azioni. Quella più famosa è, ovvio, “La morte del miliziano lealista”, oggetto di fama mondiale e di un “processo” infinito sulla sua “autenticità”, come se ne potesse distruggere il valore di icona drammatica della sanguinosa guerra civile spagnola. Il combattente è ritratto nell’ultimo momento della sua vita: il fucile gli scivola dalla mano, sta per cadere in un campo-tricea, brullo, come uno dei tanti agnelli sacrificali per la libertà.
Altrettanto note le fotografie realizzate durante lo sbarco in Normandia, quelle che -pare- per un errore nello sviluppo, apparvero leggermente sfocate. In realtà, proprio quella caratteristica rende le immagini ancora più vive e drammatiche. I soldati sbarcano nella battigia minata, sembra che la mancanza di nitidezza non voglia riprendere le conseguenze di quell’azione militare, la quale produsse, comunque, un orribile massacro. La morte, così, ritorna, spesso, nella produzione da reporter di guerra, ma anche le conseguenze umane hanno un loro spazio. Pensiamo agli scatti durante la campagna d’Italia, dove il popolo paga duramente il prezzo della guerra. Si veda, ad esempio, la foto delle mamme che piangono i figli morti durante le quattro giornate di Napoli, che, prima dell’arrivo degli alleati, scacciarono i tedeschi dalla città. Le donne sono ammassate, hanno i volti sconvolti, sono l’immagine di un dolore infinito. O le ultime foto che Robert Capa, inviato in Indocina, scatta riprendendo i morti in mezzo al fango e alle strade sterrate. Ultimo reportage prima di saltare su una mina e morire nel 1954.
Ma Robert Capa era anche un uomo brillante, fascinoso, che frequentò le personalità culturali più in vista della sua epoca. Fu amico di Steinbeck, di Hemingway (di cui esiste una foto curiosa firmata da Capa, in cui lo scrittore americano è in un letto d’ospedale, dopo un incidente poco eroico e molto alcolico, con le fasce in testa e il suo sorriso ironico), di Malraux, dei migliori attori di Hollywood, che ritrasse fissando l’essenza della loro anima, come Gary Cooper o Ingrid Bergman, di cui fu l’amante prima della avventura rosselliniana della grande interprete. Si dice, anzi, fu lui a segnalarle “Roma città aperta”. Per amore suo, la seguì come fotografo di scena sia nel “Notorius” (1946) di Hitchcock, un capolavoro assoluto, sia in “Arco di trionfo” (1948) di Lewis Milestone, film mediocre. Con questo incarico seguì anche John Houston ne “Il tesoro dell’Africa” (1954) con la nostra Gina Lollobrigida. Ma gli splendidi e originali ritratti non lo accontentavano. In Indocina i francesi avevano iniziato una ennesima assurda guerra. Così Capa riprese il lavoro di reporter di guerra, di vita, di morte, che lo aspettava lì tra strade di fango, insidiosamente minate.
Elisabetta Randaccio