L’appello di Mattarella e l’autonomia sarda tradita

Riceviamo e volentieri pubblichiamo questa riflessione ispirata dal discorso d’insediamento del presidente Mattarella. L’autore è Paolo Fadda, già dirigente della Dc isolana, sempre vicino alle posizioni di Aldo Moro, e autore del saggio C’era una volta in Sardegna la Dc (Gia, 2008).

Dal discorso che il nuovo Presidente della Repubblica ha rivolto al Paese in occasione del suo giuramento si può (e si dovrebbe) trarre un’importante “lezione” politica. E lo si dovrebbe anche da quanti vivono, come noi, dall’altra parte del mar Tirreno, perché se ne utilizzino i contenuti per ridare vigore ed efficacia al governo dell’isola.

Nel messaggio di Mattarella vi è infatti un’espressione, che ne ha rappresentato, a nostro giudizio, uno dei motivi centrali, allorché ha richiamato tutte le forze vive del Paese ad una “mobilitazione” generale, perché in momenti di difficoltà, come questi che stiamo attraversando, nessuno si deve tirare indietro. È un concetto molto bello, molto efficace politicamente oltre che suggestivamente molto pregnante, e che ricorda molto il Kennedy dell’insediamento (quello che disse “non chiederti cosa il tuo paese può fare per te, chiediti cosa puoi fare tu per il tuo paese”).

Perché d’una mobilitazione generale ha innanzitutto bisogno oggi la Sardegna, afflitta dalle pesanti difficoltà d’una recessione incalzante. Non a caso le notizie di cronaca ci avvertono come disunità e divisione (sulle cose da fare, su dove e come procedere) siano divenute delle costanti anche nella terra dove echeggia il grido di “Forza paris”. Tante, troppe, sono le tribù qui da noi, ciascuna con le proprie pretese od in difesa della propria capanna. Quasi che si sia parte d’una sola fazione e non della comune patria sarda. Tanto che i motivi di unione li si ritrova soltanto nella pretesa d’un Ente Regione chiamato a risolvere ogni singolo ed individuale problema, e non, viceversa, che ci si adoperi tottus impari (tutti insieme) per liberare la Sardegna dai gravi problemi, per un deficit di crescita e di progresso, che l’affliggono.

Vi è quindi da auspicare che anche qui nell’Isola venga proposta una mobilitazione generale per ridare innanzitutto forza e sostanza all’autonomia regionale (perché anche l’autonomia, come la democrazia evocata dal Presidente, “non è né può essere una conquista definitiva”). E riconquistare e rivitalizzare l’autonomia significa innanzitutto dover ridare unità e coesione all’intero popolo sardo, perché si senta e si comporti da vera ed aggregante comunità. Significa ancora dover ridare credibilità ed efficienza a quelle istituzioni regionali che oggi paiono sempre più distanti ed inadeguate; significa inoltre riuscire a ridare una speranza sul domani a chi l’ha perduta, predisponendo occasioni concrete per migliorare il lavoro, lo studio, la ricerca, la salute e per quant’altro occorre per rendere stabile e diffuso il benessere; significa impegnarsi per ridare alla classe politica la cultura del servizio pubblico e non della partigianeria del potere. Significa infine impegnarsi, tottus impari, per ideare e realizzare un progetto regionale di crescita sostenibile e diffusa, che riprenda e riconquisti gli ideali ed i propositi primogeniti dell’autonomia e della rinascita.

C’è dunque un’agenda aperta di problemi e di interventi a cui quella mobilitazione debba impegnarsi. Perché quell’autonomia, per cui lottarono tanti spiriti eletti, non rimanga solo un’espressione virtuale. In anni lontani Francesco Cossiga, quando era il semplice leader della Democrazia cristiana sassarese, aveva sostenuto che l’istituto autonomistico, cioè la Regione, non poteva né doveva essere inteso come un semplice espediente di decentramento di funzioni e competenze dello Stato (“un’artificiosa sovrastruttura democratica”, precisava), ma andava riempita di valori per operare come “strumento politico di crescita sociale ed indirizzato verso la conquista di una vita migliore per la nostra gente”. Ed a tal fine, proprio uno dei suoi più illuminati e sapienti politici sardi della “prima Regione”, Paolo Dettori, aggiungeva che attraverso l’autonomia, e la sua buona pratica, il popolo sardo era chiamato ad assumere in pieno la responsabilità di decidere del proprio avvenire, aggiungendo che essa, l’autonomia, sarà pienamente realizzata solo quando tutti i sardi si sentiranno coinvolti nel dover dare alla propria polis il loro contributo per costruire un domani di progresso e di benessere.

Queste espressioni risalgono alla fine degli anni ’50 del secolo scorso, oltre mezzo secolo fa, ma da allora – soprattutto dai primi anni del nuovo secolo – l’autonomia è andata perdendo significati e valori, anche per un deficit di acculturazione dei politici che l’ha ridotta ad essere niente più che un espediente rivendicativo nei confronti dello Stato. Privo, peraltro, di ogni valenza propositiva e culturale. Gestita poi, come aggiunta, più per dividere che per unire.

Ora, gli input “politici” contenuti nel discorso del Presidente Mattarella, inducono a ritornare a quel senso alto dell’autonomia che fu di quegli uomini saggi che mobilitarono attorno a delle proposte di rinascita condivisa l’intero popolo sardo. Ecco, non vale coprire soltanto di elogi le parole del Presidente della Repubblica: esse contengono un’esortazione ed un appello che non vanno disattesi. E che ciascuno di noi (ad iniziare da chi ha potere politico) deve riportare ed immettere nella propria polis: perché di una Regione autonoma piagnona e sterile, chiusa in un burocratismo delle formalità ed incapace di dare concretezza alle speranze della gente, non sapremo proprio che farcene.

Il senso profondo delle parole di Sergio Mattarella risiede proprio in quel richiamo a ritrovarci tutti insieme, tottus impari, nell’impegno di dover dare una mano per il risveglio e la riscossa della nostra piccola patria sarda. Forza paris!, dunque.

Paolo Fadda

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