Turismo, Cuccureddu: “Sardegna vicina all’overtourism. Serve cambiare i flussi e dire no alla corsa al ribasso dei prezzi causato da low cost e Booking”

di Andrea Tramonte

Quella del 2024 sarà ricordata come l’estate in cui si è preso coscienza a livello generalista del problema dell’overtourism. Il neologismo è entrato nel bagaglio lessicale comune e nel 2025 sarà presente anche nel dizionario della Treccani. Letteralmente significa “troppo turismo” ed è vicino – ma non sovrapponibile – al concetto di sovraffollamento: è quando le presenze superano, e di gran lunga, le capacità di accoglienza di un luogo fisico ben delimitato e generano uno stress nella vita dei residenti, disagi psicologici fino a impatti ambientali ed economici negativi per le comunità. In un simile contesto il viaggio diventa stressante per gli stessi turisti che devono contendersi i medesimi spazi con migliaia di altre persone. L’Isola è interessata dal fenomeno oppure ancora ci sono margini per evitare che la situazione degeneri? “In Sardegna non siamo ancora all’overtourism ma ci siamo vicini”, dice a Sardinia Post l’assessore al Turismo della Giunta Todde, Franco Cuccureddu

Ci siamo vicini e non dentro pienamente perché in alcuni casi l’aver imposto delle limitazioni ha evitato situazioni ingestibili. Da qualche anno per esempio alcune amministrazioni comunali hanno iniziato a contingentare gli ingressi nelle spiagge maggiormente prese d’assalto. L’esempio più clamoroso è quello de La Pelosa a Stintino. Il mese scorso la sindaca Rita Vallebella ha diffuso un comunicato rendendo noti i dati delle richieste per accedere alla spiaggia: novemila al giorno che significa una presenza virtuale di 40mila bagnanti (ogni ticket può includere fino a quattro persone) per 1.500 posti quotidiani. Oppure ci sono casi come quelli di San Teodoro, che nel periodo di massima affluenza turistica, in alta stagione, passa da 5mila abitanti a presenze tra le 70mila e le 100mila. Con l’aggravante quest’anno dell’emergenza idrica, che pure è riuscita a essere gestita senza dover intaccare gli usi civili dell’acqua.  “La concentrazione di molte persone in un breve periodo è uno dei fattori che va contro alle tre sostenibilità del turismo – spiega Cuccureddu -: ambientale, economica e sociale. Purtroppo la Sardegna ci sta andando incontro”. 

Assessore, se non siamo ancora in overtourism in Sardegna il rischio è di arrivarci presto. La Giunta ha un piano per affrontare la questione?

Bisogna fare una premessa. La stagione è ridotta a poche settimane perché anche se è cambiato il modo di fare le ferie in genere si concentrano a quelle 5, 6 settimane tra luglio e agosto. Questo ha diverse conseguenze. Serve tanto personale per lavorare poco tempo e non si trova. Manda in tilt alcune infrastrutture che non sono tarate su certi numeri: depuratori, risorse idriche, parcheggi che non si trovano. E da un punto di vista economico causa una esplosione dei prezzi per un semplice meccanismo di domanda e offerta. I vettori fanno i prezzi che vogliono con gli algoritmi, gli alberghi pure. E gli elementi della sostenibilità dei flussi vengono meno. Questo rischia di rendere una vacanza impossibile, terribile: passare la giornata in macchina perché non si trova parcheggio, non poter visitare le spiagge migliori perché non c’è spazio per mettere l’asciugamano… In alcuni luoghi si è vicini ma non siamo al livello per esempio della Spagna. 

Questo sul fronte delle sostenibilità. In alcune località balneari i problemi ci sono e in alcuni casi gli amministratori, per esempio, devono contingentare gli accessi. 

E hanno fatto bene. Coraggiosamente. Certe ordinanze non si fanno a cuor leggero perché ci sono una serie di effetti, pressioni, anche il rischio di cattiva immagine della località. Ma erano ordinanze necessarie per due aspetti: salvaguardare il bene ambientale e rendere piacevole stare in spiaggia. Una riflessione è che le sindache sono state più coraggiose dei sindaci: Stintino, Santa Teresa, San Teodoro, Drogali… Forse hanno avuto maggiore sensibilità per il tema, più lungimiranza. 

Lei ha citato tra le questioni anche quella del lavoro concentrato in poco tempo. Ci sono spesso lamentele sulla difficoltà di trovare personale, però va sottolineato che lavorare per sole cinque, sei settimane all’anno non è sostenibile. 

Per la prima volta hanno chiuso i convitti degli istituti alberghieri. Lavorare nel turismo non è più attrattivo per i giovani. Prima si pensava di potersi costruire una famiglia grazie a un reddito tutto l’anno ma più si concentra la stagione – ora si dice esplicitamente che fine agosto non è più alta stagione – meno si dà la possibilità a chi vuole un lavoro stabile di realizzarsi. Lavorare nel turismo significa essere impiegato due tre mesi all’anno e poi disoccupazione oppure altri lavori per cui non sei formato. E poi c’è un altro aspetto legato alla concentrazione della stagione.

Quale?

La bassissima occupazione delle stanze degli alberghi, concentrata in poco tempo. C’è un grandissimo patrimonio immobiliare, anche di gran pregio, che viene messo in produzione per poche settimane e poi rimane chiuso.

Ecco, per tornare alla prima domanda: come si affronta la questione? 

Dobbiamo riuscire a creare nuovi prodotti turistici evitando investimenti infrastrutturali o immobiliari per inseguire le punte massime. Non c’è bisogno di promuovere gli eventi di agosto per attrarre persone, perché la gente c’è già, gli alberghi sono già pieni. Bisogna creare scelte condivise da assessorati, privati e soggetti vari per creare prodotti più difficili da affermare, affidandoci anche alla scienza dei dati, per utilizzare patrimonio ricettivo e servizi dove è possibile in periodi e luoghi diversi. Bisogna far sì che le politiche dei grandi eventi e la comunicazione facciano in modo di poter lavorare in bassa stagione, come per esempio gli alberghi. Insomma, è fondamentale spalmare in flussi. Non abbassiamo la punta massima, quella possiamo mantenerla ancora: sappiamo che in quelle settimane i numeri saranno quelli ma non è il modello che vogliamo portare avanti. Pensiamo che altri periodi, altre località e altri prodotti possano essere attrattivi. In ogni caso non credo che da noi sia possibile raddoppiare i flussi in alta stagione. Siamo un’isola e ci sono due vincoli: la disponibilità dei posti per arrivare in aero o in nave e i costi. Se facessimo una politica di abbassamento dei costi allora sì che avremmo problemi.

Non vede il rischio che le comunità si sentano “schiacciate” – nella loro vita quotidiana, nelle loro relazioni – da una presenza troppo massiccia di turisti anche se in un periodo concentrato? Che si possa arrivare all’insofferenza legittima e alle proteste che abbiamo visto a Fuerteventura e Barcellona e quindi ai conflitti tra residenti e turisti?

È un fenomeno che è stato esaminato, che conosciamo. Tra non molto uscirà anche un libro sulla Sardegna con un titolo provocatorio, Non si vive di turismo. Secondo me le comunità in Sardegna si sono adeguate perché il turismo ha dato una ricaduta diffusa. La situazione non è come quella di Venezia o di Barcellona, dove poche persone traggono profitto e le altre vivono il turismo con sofferenza. Quello è il lato negativo di questo settore. Nelle nostre località turistiche invece tutti sono più o meno coinvolti nei servizi, nell’ospitalità, o hanno qualcuno in famiglia che è coinvolto. Piuttosto c’è il problema del conflitto tra lavoratori, che è uno dei problemi che devono affrontare i sindaci. Per esempio tra un locale di fronte al mare che fa musica fino a tardi e il pescatore che vive e lavora lì davanti e inizia a pescare di notte. Lui non ha la possibilità di lavorare in orari diversi, per far avere il pesce fresco a pranzo nei ristoranti o nelle pescherie. Il locale però ha bisogno della musica per attirare le persone e la musica bassa non funziona. 

Un altro problema legato all’impatto del turismo è quello della “airbnbizzazione” dei centri storici: gli appartamenti vengono messi a disposizione per gli affitti brevi, i residenti vengono di fatto espulsi dai quartieri e i costi si alzano, per gli affitti e per gli acquisti delle case. Lo vediamo a Cagliari, a Olbia, ad Alghero. 

Il problema esiste. Ci vogliono misure di carattere nazionale: noi come Regione non possiamo limitare l’utilizzo di case per gli affitti brevi, servono normative nazionali notificate in Europa. Ma facciamo parte della Conferenza Stato Regioni e stiamo approfondendo le questioni normative, anche quella relativa alla tassa di soggiorno. Il problema è che queste situazioni non sono state gestite e programmate e c’è stata molta improvvisazione. Il caso Alghero è studiato a livello internazionale.

L’impatto del low cost?

Prima c’erano i voli charter, 60, 70 all’anno dalla Scandinavia e dalla Svezia. I turisti spendevano 500mila lire a testa e andavano in alberghi a 4, 5 stelle. Poi il low cost ha proposto biglietti a 29 euro. Le persone si sono chieste: perché devo spendere per alberghi costosi se ad Alghero arrivo con pochi soldi? C’è stata una svalutazione della destinazione. Dobbiamo dare valore al prodotto turistico della Sardegna. Ryanair ha interesse a svalutare perché gioca sulle quantità e ritiene che si debbano dare soldi pubblici a loro perché “portano gente”. È un bene che ci sia, ma all’interno di una pluralità di servizi. Alghero per sopravvivere ha fatto accordo con Ryanair e la compagnia ha imposto anche di includere Olbia. Se dovesse innescare il meccanismo della popolarizzazione della destinazione Gallura sarebbe drammatico per l’economia sarda. C’è una concorrenza con ribasso dei prezzi causata dagli algoritmi di Booking anche per bnb. Non possiamo sottostare alle dinamiche delle piattaforme e delle compagnie. Anche per questo puntiamo sull’aggregazione dell’offerta finanziando l’albergo diffuso, con la speranza che i bnb si aggreghino nei centri storici e siano loro, insieme, a stabilire i prezzi e non Booking. Dando valore alla destinazione. 

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