Tore Cherchi è uno dei pochi esponenti del centrosinistra sardo che ancora riesce a mobilitare l’elettorato, e lo fa da pensionato della politica l’ex sindaco di Carbonia, ex parlamentare del Pci prima e dei Ds poi, presidente della Provincia sulcitana per due mandati. “Noi che abbiamo avuto il privilegio di rappresentare i cittadini nelle istituzioni – dice -, non possiamo sottrarci al dovere di contribuire a leggere questa difficile e complicata fase. Per questo con amici e compagni organizziamo assemblee tematiche nei territori: nell’ultima, del 25 giugno scorso, ci siamo confrontati sul necessario rafforzamento dell’Unione europea in chiave federale. I rigurgiti nazionalisti ed esclusivisti, emergenti in diversi Paesi dell’Ue, Italia compresa, vanno contrastati prima di tutto sul piano culturale”.
Onorevole, l’ha detto poco fa anche lei, seppure usando parole diverse: il Pd, il suo partito, è appena sopra la soglia di sopravvivenza.
La fase discendente non coincide con le Politiche del 4 marzo né con i ballottaggi del 10 giugno. Il declino è cominciato, paradossalmente, poco dopo le Europee del 2014 quando il Pd ha raggiunto il suo massimo storico, superando il 40 per cento.
Vi siete cullati sugli allori?
Sono stati sottovalutati i segnali, dapprima piccoli, arrivati dalle urne delle Amministrative già a partire dal 2016.
Di chi è stata la colpa?
La responsabilità è innanzitutto del segretario e del gruppo dirigente. Tuttavia ha poco senso, adesso, chiuderci nell’intestazione delle responsabilità. È il momento della ricostruzione, questo. E per incamminarci su questa strada bisogna parlare di contenuti, non dei colpevoli. È necessario capire cosa non ha funzionato.
Lei l’ha capito?
Ora meno che mai ci possiamo permettere letture sommarie. È tuttavia indubbio che il Pd non abbia saputo rappresentare quella parte enorme dell’elettorato che si è ritrovata senza lavoro o, nei casi più fortunati, ha perduto potere d’acquisto. In larga parte questo è un problema comune a tutte le forze della sinistra europea. Quando ‘il popolo delle vittime’, come lo chiama il filosofo marxista Slavoj Zizek, non trova rappresentanza a sinistra, si rivolge ad altri, destra compresa. Questo problema strutturale esiste prima di Renzi. Tuttavia Renzi si è illuso di risolverlo agendo da populista dall’alto del governo: la sua ascesa politica si è basata sul mantra della rottamazione che non è molto diverso dal vaffa grillino. Il filone è lo stesso. Sotto la guida di Renzi, il Pd ha prima frenato l’avanzata di M5s, poi ha subìto il sorpasso. Il popolo delle vittime genera infatti un elettorato molto fluttuante.
Il 2016 è stato anche l’anno della riforma costituzionale.
E tutto torna: perché la sconfitta al referendum aveva un significato oltre lo stretto merito della consultazione popolare. La riforma non solo era sbagliata, ma anche accorpata a una brutta legge elettorale, l’Italicum, a vocazione ipermaggioritaria, bocciata pure dalla Consulta. Solo che il Pd ha rimosso l’esito del referendum. Renzi si è dimesso da premier, ma ha subito riaperto la sfida come segretario del Pd.
Un errore?
È il metodo che è stato sbagliato: si è preferita la rimozione della sconfitta alla discussione. Io vengo da una scuola politica, quella del Pci, in cui ci hanno insegnato che l’analisi è tutto.
Ha ancora senso parlare di sinistra e di destra?
Assolutamente sì. Warren Buffett, un miliardario americano, ci spinge a non archiviare le due categorie. In un’intervista ha detto: ‘La lotta di classe è sempre in atto e la stiamo vincendo noi’. Se un capitalista con un patrimonio da 80 miliardi di dollari parla di lotta di classe vinta dalla sua classe di appartenenza, significa che sinistra e destra esistono ancora.
Il concetto come lo si spiega all’elettore di sinistra che oggi vota il Movimento Cinque Stelle?
Mi spiego con due esempi . La fiscalità deve continuare a essere progressiva. La flat tax, cioè tasse basse per tutti, si tradurrà inesorabilmente in un forte premio ai più ricchi e nel taglio allo stato sociale. E chi sostiene il contrario, fa propaganda. Noi dobbiamo contrastare la flat tax e batterci per una riforma fiscale socialmente equa basata sul ‘pagare tutti, pagare meno’. Per altro verso dobbiamo riconoscere che il Jobs Act ha ulteriormente destrutturato il mondo del lavoro contribuendo alla crescita delle diseguaglianze, anche perché non è stato accompagnato da misure adeguate di sostegno al reddito di chi perde il lavoro o non lo trova.
Si è sempre detto che quando la sinistra perde consenso tra gli insegnanti, viene sconfitta alla elezioni. Per il Pd è andata esattamente così anche stavolta.
Il Governo Gentiloni, con il ministro Fedeli, ha provato a mettere una pezza. Ma ormai la frattura con gli insegnanti era insanabile.
Durerà a lungo la luna di miele tra gli italiani e il governo giallo-verde?
Non credo che i cittadini tarderanno a presentare il conto: lo faranno quelli che si aspettano la flat tax, quelli che vogliono la cancellazione della Fornero, quelli che attendono il reddito di cittadinanza. Ma nel frattempo si pone il problema di cosa succederà al nostro Paese.
Lei lo sa?
Al momento non sta succedendo nulla di buono: la politica di Lega e M5s sta solleticando la pancia degli elettori. Si fa leva sulla paura. È aperta la caccia al rom e al migrante. I mancati soccorsi in mare sono un abominio.
Chi è oggi il vero premier?
Salvini. Certamente non Conte. E anche questo è un paradosso.
A sinistra del Pd c’è un mondo arrabbiatissimo col Partito democratico.
Della crisi tutti hanno responsabilità. Il Pd ha certamente quelle maggiori. Ma è indispensabile tornare a ragionare insieme: la divisione è sempre l’anticamera della sconfitta.
Il manifesto di Calenda sul fronte repubblicano l’ha convinta?
È apprezzabile che l’ex ministro si stia battendo in questo campo. Ma non parlerei di adesioni schematiche a questa o a quella proposta. Uno dei prodotti negativi del Pd è stata proprio la personalizzazione della politica, quasi il culto del capo. Col risultato che da un lato è stata offuscata la discussione sui temi, dall’altro si è distrutta una organizzazione. Il Pd non è più presente nei territori.
Va detto che ormai fa sorridere il sentir dire “Ripartiamo dai circoli”.
Tuttavia è ai territori che bisogna guardare, gli elettori sono lì, i militanti pure. Certo: si tratta adesso di attraversare il deserto. Non è facile recuperare la fiducia perduta. Sono necessari umiltà, tenacia e duro lavoro. La democrazia è faticosa e al metodo partecipativo non esiste una alternativa se non negativa.
Le piace la proposta di Zingaretti sull’alleanza civica coi sindaci?
Se Zingaretti si candidasse a guidare il Pd, lo voterei. Gli amministratori locali sono fra i maggiori protagonisti dei territori e rappresentano ancora una forza consistente. Però attenzione: non sarà sufficiente eleggere un segretario con le classiche primarie che comprimono la discussione del merito delle questioni . D’altra parte un congresso è necessario poiché non è una soluzione quella basata su un cambio della maglietta di segretario fra persone dello stesso gruppo dirigente che ci ha portato alla sconfitta. Come avere allora un congresso che provochi una discussione che interessi e coinvolga? Penso che un congresso basato sulla discussione e sul voto di tesi sui temi cruciali possa essere più partecipativo e più interessante per la società e favorirebbe la formazione di un gruppo dirigente unitario e pluralista. Questo beninteso vale anche per il Pd sardo.
Se si votasse domani per le Regionali sarde, chi vincerebbe?
Io mi auguro che a vincere sia un centrosinistra rinnovato e a vocazione federalista.
Alle Regionali del prossimo anno il Pd deve correre con gli indipendentisti o senza?
In passato è accaduto e può accadere anche nel presente. Oggi purtroppo il Psd’Az è alleato con la Lega. Ci sono però altre formazioni. Ci si può incontrare su una piattaforma seriamente federalista. Il Pd sardo deve fare autocritica sui cedimenti al neocentralismo. Ma l’alternativa non è la subalternità a piattaforme indipendentiste. Bisogna guardare all’Europa unita e federalista in prospettiva, perché sono a rischio i capisaldi dell’Unione, come il trattato di Schengen sulla libera circolazione dei cittadini.
Il Pd sardo sembra anche il miglior alleato dell’antipolitica: alla guida del Corpo forestale è stato nominato un condannato per reati ambientali.
Trattandosi di condanna di primo grado, è una questione controversa di opportunità. Vasco Errani si dimise da presidente della Regione Emilia e poi fu pienamente assolto. Non tutti usano il metro di Errani nel misurare l’impatto di una decisione. Errani privilegiò l’impatto sui cittadini. Detto questo, bisogna anche dire che i penta stellati, sempre giustizialisti con gli altri, sono ipergarantisti quando i fatti di giustizia riguardano loro.
Alessandra Carta
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