Questa intervista nasce da una chiacchierata informale, per i saluti di fine anno, fatta al telefono. In quell’occasione Pietrino Soddu – il saggio della politica sarda, un curriculum lungo così dalla presidenza della Regione al Parlamento, sempre in quota Dc, corrente morotea – rifletteva sulla crisi politica e culturale che da anni travolge il mondo e “in Sardegna è complicata da un’aggravante”. Ieri, sempre al telefono, Soddu ha riavvolto il nastro su quel ragionamento che merita di essere raccontato perché offre un’opportunità: “Le commemorazioni per i 150 anni dalla nascita di Grazia Deledda sono, provvidenzialmente, l’occasione per dare un nuovo orizzonte di senso alla Sardegna”.
Presidente, fotografia attuale: cosa vede?
Io vedo una situazione non chiarita: seppure superate alcune questioni legate alla stabilità del Governo nazionale e alla guida condivisa e autorevole dello Stato come deciso a gennaio dalla maggioranza del Parlamento, continua a emergere un quadro che contraddice gli applausi ricevuti da Mattarella in occasione della sua elezione. Mi riferisco proprio al discorso di insediamento fatto dal presidente della Repubblica che, seppure con molta eleganza, ha denunciato le mancate risposte della politica alle necessità dei cittadini. Ma quando si parla di uguaglianze, diritti e richiami ai valori costituzionali, come nella riflessione di Mattarella, evidentemente l’obiettivo è far emergere il quadro di crisi che attraversa il Paese, la società italiana, la politica in particolare e la funzione dei partiti.
In Sardegna è meglio o peggio?
In Sardegna la situazione è ancora peggiore perché noi stiamo dentro la crisi generale del mondo occidentale con una aggravante: abbiamo ancora molti tratti e condizioni delle società pre-industriali. Nella nostra Isola si è fermato da molti anni il processo di cambiamento che avevamo avviato negli anni Cinquanta e Sessanta. Un processo che, però, non ha prodotto i risultati sperati, non si è rilevato adeguato per risolvere i nostri problemi di sviluppo, sebbene ci sia la tendenza a rifugiarsi nel passato. Oggi ci sono ancora troppe carenze non colmate. La Sardegna deve ritrovare motivazione sul tema della crescita, riprendendo quel discorso che aveva portato alla nascita di un movimento popolare molto partecipato, a tratti anche eccessivamente ambizioso, ma attraverso il quale vennero delineati i nuovi bisogni dell’Isola segnando un cambiamento radicale nella percezione dei sardi e dell’essere sardi.
Quel percorso come si era concretizzato?
Nasceva dalla crisi post bellica e da una lunga discussione che precedeva il Fascismo. Dall’Ottocento in poi, per fissare un termine temporale, il pensiero sardo conosce una linea di sviluppo del tutto nuova e che prendeva spunto dal nostro essere sempre stati dominati e oppressi, bloccati in una condizione arretrata, quasi drammatica, che portava tutti quelli che venivano in Sardegna a trovarla ferma al Medioevo. Lo stesso Lussu, per dire, in tutti i suoi discorsi e persino nel numero speciale de “Il Ponte” di Calamandrei dedicato alla nostra Isola e uscito nel ’50, diceva che eravamo la regione più povera e più arretrarta d’Europa. Così sosteneva l’inventore del Psd’Az, l’ideologo del movimento che puntava al riscatto della Sardegna facendo leva sulla propria forza identaria, sul carattere di antico popolo guerriero.
Quale fu il merito di quel movimento?
La classe dirigente di allora e gli intellettuali ebbero il merito di costruire un rovesciamento delle posizioni, abbandonando la rassegnazione, accantonando la chiusura della Sardegna in se stessa, superando quella costante resistenziale di cui parlava Giovanni Lilliu. La posizione di Lussu è ancora oggi molto importante. Quel percorso diede la spinta al Piano di rinascita che nacque dalla comparsa e ricomparsa di una coscienza operaia e organizzata nei sindacati, nel Pci, nella Dc convintamente regionalista, nel Psi. Ma anche nella riscoperta di Gramsci, nel genio di Laconi e nella capacità della Cgil di mobilitare i sardi, ai quali venne proposto in chiave isolana il piano per l’occupazione per il Mezzogiorno voluto dal primo segretario Giuseppe Di Vittorio. Fu il risveglio della coscienza popolare, ciò che portò a chiedere un intervento allo Stato per cambiare le condizioni della Sardegna.
Il Piano di rinascita, però, è anche storia di fallimenti.
L’industrializzazione, innegabile, non ha dato i risultati sperati e continua a portare con sé critiche feroci. Ma oggi siamo di nuovo alle prese con problemi che si ritenevano superati. Ecco perché serve coinvolgere nuovamente i sardi: è necessario capire quali sono le attese di oggi, nella nuova dimensione della modernizzazione, e da queste ripartire. La società sarda mi pare imbrigliata in una condizione che oscilla tra un’apertura al nazionalismo identitario, volto a chiudere l’Isola, e un cosmopolitismo di maniera, come lo chiamava Antonio Pigliaru, ma di cui non si intravede il punto di arrivo.
Che crisi è quella sta travolgendo il mondo?
È una crisi che non risparmia nessuno, nemmeno le regioni più progredite. Anche l’industria più moderna deve fare i conti con passaggi epocali introdotti da robotica, informatica e digitale, ma in continuo mutamento, ciò che rende difficile individuarne contorni e caratteri. La crisi è comune, ma l’analisi va fatta a livello locale. Quello che dobbiamo fare noi sardi è un esame interno della società isolana. Non tanto un’analisi sui problemi economici, quanto il tentativo di convincere i cittadini a uscire dal letargo in cui si trova la Sardegna, con tutte le sue componenti.
Come si fa?
Bisogna imparare a utilizzare i talenti individuali. La Sardegna è piena di ingegno, individualmente quasi tutta la popolazione ha conosciuto un’evoluzione che non è inferiore a quella di altre regioni, eppure non si riesce a trasformare queste intelligenze in possibilità di cambiamento, in un’azione politica corale, in un progetto condiviso, in una capacità di non tornare indietro. Questa è la crisi di fondo, la contraddizione dalla quale è necessario uscire.
Non aiuta il centrodestra sardo, una maggioranza di governo a cui Roma impugna la maggior parte delle leggi. Questo è un problema ogettivo, un ostacolo al cambiamento. Ne conviene?
Se ci mettiamo a cercare le cause che stanno alla base dell’incapacità di aggiornare le istituzioni, troviamo il fallimento dell’unità autonomistica. L’esperienza politica di Soru è stata l’ultimo tentativo di costruire un cambiamento per la nostra Isola utilizzando contemporanenamente il sentimento sardista diffuso, ovvero la componente antropologica culturale profonda che vuole il sardo un po’ diverso dagli altri, ma anche la visione moderna del mondo. Progetto Sardegna aveva raccolto intellettuali, professionisti e talenti che poi sono stati sconfitti dalle forze conservative. Da allora siamo tornati indietro.
Cosa intende per forze conservative?
Quelle che si sono unite intorno a Berlusconi e dopo Berlusconi. Soru è incappato in un frangente italiano determinato dalla crisi dei partiti tradizionali, finendo per essere battuto da Cappellacci, meno conosciuto ma calato dall’alto per motivi che nulla avevano a che fare con la democrazia. Le forze conservative hanno messo insieme ex democristiani ed ex comunisti. Basta guardare nel campo dei Quattro Mori. I sardisti di oggi, per esempio, non sono certo i sardisti di Lussu. Il Psd’Az attuale non è sardismo rivoluzionario, ma conservatore, è espressione della piccola e media borghesia. Il partito sembra che stia perdendo la sua anima solidarista, internazionalista e aperta ai progressi del mondo. La politica isolana si è chiusa in se stessa e noi non siamo riusciti a cogliere le occasioni che si sono presentate dal Duemila in poi e che si avrebbero permesso di aprire una nuova riflessione per ripensare la nostra esperienza in termini globali.
Quali occasioni abbiamo sprecato?
Mi limitato a ricordare quella che ci ha riguardato direttamente: le celebrazioni per i Settant’anni dell’autonomia. Da tempo abbiamo iniziato un percorso reazionario che ha respinto tutti quei tentativi di modernizzare la Sardegna, come rispettare l’ambiente, mettere limiti al consumo del territorio, sposare le tecnologie, fermare lo spopolamento, di frenare l’emigrazione dei talenti migliori, riequilibrare i divari interni dell’Isola, aggiornare il modello di autogoverno, migliorare i patti con lo Stato. Anche nella fase finale di Progetto Sardegna, lo stesso iniziatore del percorso di cambiamento, e mi riferisco a Soru, aveva sperato, o si era convinto, che l’accordo Pci e Dc, tra Ds e Margherita, portasse risultati.
Anche il berlusconismo ha l’aggravante di aver soffiato sul vento del populismo, facendo addirittura prendere al Pd di Veltroni il gusto per l’uomo solo al comando, di cui Renzi è stato poi la massima espressione.
Purtroppo è diffusa la tentazione di percorrere una strada reazionaria e restauratrice, un cammino che in parte rifiuta di risolvere i problemi con soluzioni superate dalla storia. Guardiamo in casa nostra all’alleanza del Psd’az con la Lega, un’alleanza impropria e antistorica.
Perché impropria e antistorica?
Vero che la Lega nacque come spirito regionalista, ma è separatista, rappresenta interessi diversi dai nostri. La Lega è nordista, rifiuta quasi in partenza la responsabilità del divario tra Settentrione e Meridione, non sopporta l’assistenzialismo. Noi siamo per loro la razza delinquente, criminale. Ma contemporanenamente la Lega interpreta un sentimento di rifiuto verso certe forze troppo moderniste che hanno dimenticato l’ancoraggio ai valori antichi, alla cultura tradizionale. I populismi prendono voti in questo terreno, in cui il Psd’Az si è inserito facendo credere che il sardismo sia uguale in tutte le epoche. Ma così non è.
Le “forze troppo moderniste” quali sono?
Sono quelle arrivate dopo l’esperienza fascista. Una generazione figlia del blocco storico gramsciano e cresciuta nella convinzione che giustizia sociale e redistribuzione della ricchezza ci avrebbero fatto uscire dal decadimento post bellico ed entrare in un nuovo mondo democratico. Oggi i fatti sono altri: siamo in una contradditoria fase in cui si sono moltiplicati gli Stati nazionali, con l’emersione di Malta, Catalogna e Corsica, per restare in ambito europeo, ma è entrato in crisi il modello dello Stato nazionale. Questa contraddizione di fondo attraversa la politica mondiale prendendo la forma di un nuovo imperialismo che somiglia alla fine della Res Pubblica romana: le fazioni sono tornate a dominare.
Un consiglio ai sardi di buona volontà?
Noi dobbiamo trovare una formula culturale, politica e istituzionale che ci porti a far convergere la nostra identità, e chiamiamola pure nazionale, con le esigenze di una post modernità che richiede di esser globali e locali insieme, che richiede di associarsi a casa nostra per affrontare insieme il mondo fuori.
La figura della Deledda si presta a tutto questo?
È un’occasione straordinaria. Perché apre un versante politico con la chiave apartitica, quindi la sfida diventa in automatico di tutti. La Deledda non è catalogabile né con le forze progressiste né con quelle reazionarie e marxiste. Il pensiero della scrittrice nuorese, di conseguenza, non offende nessuno. In secondo luogo il personaggio Deledda è un’opportunità perché l’evoluzione della sua vita sintetizza bene l’orizzonte di senso che la Sardegna deve costruire: la Deledda non è stata una nuorese che si è chiusa in casa disperata. Al contrario ha raccontato i vizi e le virtù della società di allora puntando dritta anche a una sua affermazione personale. La Deledda ha sfruttato il suo talento, quello che oggi la nostra Isola non riesce a fare, anche per dare un’occasione di riscatto alla società nella quale viveva. E lo ha fatto comunicando al mondo l’esistenza della Sardegna. Ritrovo nell’azione della Deledda un modello per provare a far uscire la Sardegna da questa condizione di isolamento e letargo insieme nella quale è assopita. Non possiamo permetterci di sprecare questa circostanza, come abbiamo fatto con i Settant’anni dell’autonomia e con le celebrazioni gramsciane. Per la festa dello Statuto sardo era venuto anche il capo dello Stato, erano arrivati i presidenti di Camera e Senato, c’erano state mostre fotografiche, ma nella politica non è cambiato nulla. E se non riusciamo a smuovere questo tessuto inerte della società sarda organizzando una grande mobilitazione, non usciremo dalla crisi.
A chi tocca questo compito?
Io credo che sia necessario tenere separate le celebrazioni in senso stretto e la grade mobilitazione dei sardi. Nel primo caso, i due comitati costituiti da Ministero e Regione devono continuare a svolgere il loro lavoro di promozione del pensiero deleddiano; l’altro compito andrebbe invece affidato a un soggetto pubblico leggittimato e interessato a svolgere questa funzione corale, collettiva e sociale. Interessato a percorrere la strada del cambiamento.
Ha già un’idea di quale possa essere il soggetto pubblico?
Gli unici soggetti che hanno oggi una certa legittimazione per motivi diversi e anche la possibilità di organizzare, programmare e mobilitare le intelligenze, nonché studiare uno schema di progetto articolandolo in maniera molto moderna, sono da una parte il Comune di Nuoro e dall’altra la Fondazione Sardegna. Nuoro è la città natale della Deledda, è il centro della crisi antropologica della Sardegna. Nuoro è stata l’Atene sarda, ha energie e valori per portare a questo traguardo.La Fondazione Sardegna ha una guida, una struttura, un bilancio e una missione tali da poter prendere in mano la crisi della nostra Isola e cercare di coinvolgere tutti gli strati della popolazione in questo disegno e in questo confronto, ma soprattutto gli intellettuali, gli imprenditori, i sindacati, le Università, i giornali e la Chiesa.
Lancia qui un appello al sindaco Andrea Soddu e al presidente Antonello Cabras?
La mia passione poetica mi ha richiamato alla memoria i versi che più di tutti mi sembrano adatti a farci mettere in cammino. Mi riferisco a L’Infinito di Leopardi, al suo “sempre caro mi fu quest’ermo colle”. Noi dobbiamo uscire da questa condizione leopardiana. Tutti noi intravediamo oltre le siepi dell’orizzonte il mondo ideale, anche noi sognamo e ci perdiamo in questa immensità sconosciuta e desiderata. Ma contrariamente a Leopardi non devono bastarci l’immaginazione, la fantasia e il fascino del sogno: noi non dobbiamo puntare al naufragio dolce. Non è quella la soluzione. Alla Sardegna non serve una cosa consolatoria. Noi dobbiamo cambiare realmente e il percorso non potrà che essere amaro e doloroso. L’orizzonte che vediamo e intravediamo dobbiamo raggiungerlo con una nave guida e certamente pagando un prezzo. Ma solo così si potrà costuire un approdo che ci soddisfi, che ci dia fiducia e speranza. Ci vuole qualcuno che, col sostegno di una grande mobilitazione, ci porti in questo attraversamento, ci spinga verso nuovi traguardi.
Alessandra Carta