Soddu: “Col ddl Calderoli a rischio i diritti fondamentali dei sardi, serve mobilitazione”

Alessandra Carta

“Il silenzio che in Sardegna accompagna il dibattito nazionale sull’autonomia differenziata, e quindi sulla trasformazione dello Stato in senso federalista, dimostra la straordinarietà della crisi in corso nella nostra Isola”. Pietrino Soddu, uno degli animatori della Specialità statutaria, prova a suonare la sveglia alla politica regionale. Una classe dirigente impegnata in questi giorni a leggere sulle accuse di corruzione nei confronti del presidente Christian Solinas, ma da troppo tempo livellata su un confronto senza prospettive. Con la gestione dell’ordinario che ormai si è fatta emergenza e “la mancanza di un orizzonte di senso”, come preferisce ripetere il sette volte governatore sardo e autore di molti saggi da quando alla fine del Duemila ha lasciato l’ultimo incarico istituzionale.

Presidente Soddu, il centrodestra annaspa tra le nuove inchieste della Procura e domenica il popolo progressista va alle urne del Pd per scegliere i nuovi leader del Partito democratico, tanto a Roma quando in Sardegna. L’ora del ricambio è arrivata?

Io non sono un militante politico; da un po’ di tempo non faccio parte né del Pd né di ogni altra organizzazione. Vivo lontano dalle manifestazioni. Seguo le vicende del Palazzo come un comune cittadino, leggo i giornali e guardo la tv. Il Pd, per la mia impressione, è l’esempio più clamoroso e in un certo senso più inquietante della crisi di senso che sta attraversando la politica. Nel Pd e nelle sue dinamiche interne si trovano i segni del cambiamento che ha travolto la nostra società. Dopo la fine della Prima repubblica, definita democrazia bloccata per il permanere del Pci all’opposizione e per l’assenza di una alternanza al governo del Paese, è iniziata in Italia una fase molto confusa, aggravata dalla morte di Moro e Berlinguer e resa ancora più evidente dalla caduta del Muro. Nel litigioso Pd sembra che nessuno si senta in casa propria. È come se fossero tutti in terra straniera.

Da cosa ricava la frammentazione del Partito democratico?

Basta soffermarsi sulla distanza enorme che c’è tra il linguaggio e il contenuto. Tra le parole usate e il loro senso. Io la definisco crisi della semantica linguistica. Non si capisce più l’obiettivo di certi discorsi. In Sardegna questo colpisce più che altrove, sebbene non ci sia zona che non viva questa crisi di appartenenza.

Lo fa un esempio?

Oggi si passa da maggioranza a un’altra; oggi si cambia da un partito a un altro; oggi non c’è più un blocco storico, per dirla alla Gramsci, non ci sono più le classi sociali. Siamo in una società liquida, talmente fluida che si è perduta pure la la divisione tra destra e sinistra. I due schieramenti hanno finito per essere coincidenti. Parole come Stato, nazione, patria, libertà, uguaglianza, famiglia e religione, un tempo aiutavano a identificare quella o questa parte, a seconda del loro utilizzo; oggi i partiti usano questi termini allo stesso modo. Siamo davanti a uno sbandamento che colpisce fortemente.

In Sardegna su quali parole si è arrivati al cortocircuito che lei descrive?

Direi sull’autonomia. Vero che in tutto il mondo occidentale il dogma della democrazia liberale rappresentativa è in crisi: Paesi come Russia, Cina e India non lo riconoscono più come unicità. Lo stesso accade nel mondo islamico e in America latina. Il modello politico e culturale che ha dominato la storia europea e che ancora oggi è la cifra della letteratura, non riesce più ad affermarsi lasciando un vuoto molto pericoloso. Finiranno per occuparlo forze non legittimzate dal voto o che gestiscono un populismo demagogico. Oggi il concetto di autonomia, nato in Italia con la Costituente e dall’alto valore democratico visto che ha segnato la fine della monarchia, è diventato un concetto obsoleto per come viene proposto.

Se oggi parlasse di autonomia ai giovani nemmeno loro ascolterebbero. Anzi, sarebbero i primi a confermare l’utilizzo di un linguaggio fuori tempo.

Certo, perché la politica regionale, le rare volte in cui affronta il tema, lo riduce a un rapporto esclusivo tra istituzioni, con la Regione da una parte e lo Stato dall’altra. A venire fuori è un perenne conflitto. Invece l’autonomia, specie oggi che il Governo è al lavoro per dare esecuzione a un regionalismo differenziato, in applicazione dell’articolo 126 della Costituzione, ci riguarda tutti perché la riforma ridefinisce i diritti fondamentali dei cittadini, a cominciare da quello alla salute. Il rischio gigantesco è che nelle regioni più in difficoltà come la nostra si fatichino a garantire, per esempio, i livelli minimi di assistenza. All’orizzonte vedo la possibilità di approdare a un regionalismo delle diseguaglianze. Lo stesso discorso vale su istruzione, università e infrastrutture. Se il concetto di autonomia non viene aggiornato da parte di chi è chiamato a dialogare con i cittadini e a rappresentarli, si finisce per parlare di un futuro che è già passato. Ecco perché serve che la classe dirigente si attrezzi per rinnovare anche il linguaggio. Quando gli elettori, sempre più lontani dalle urne, bollano destra e sinistra come ‘tutti uguali’, non fanno altro che rimarcare la perdita di significato della semantica politica. E hanno ragione: la destra e la sinistra usano le stesse parole. Ecco perché i cittadini restano indifferenti e non vanno a votare.

I partiti sardi cosa dovrebbero fare?

Aprire il dibattito sulla crisi delle istituzioni democratiche e sul ddl Calderoli. È assurdo che una questione così centrale per la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica, venga tenuta fuori dal dibattito. I partiti ci girano intorno: sui rapporti con lo Stato tirano in ballo la gestione delle politiche energetiche, l’ambiente e la sanità, ma dimenticano l’autonomia e gli effetti che l’autogoverno avrebbe sul Mezzogiorno. In Sardegna, peraltro, il modello federalista sinora è stato utilizzato strumentalmente e in maniera cinica solo per giustificare un’alleanza innaturale come quella tra Lega e Psd’Az.

Nella nostra Isola c’è qualcuno all’altezza di un discorso così alto?

Il discorso bisogna sollecitarlo.

Per favore, lo fa lei?

(ride) Io posso solo dire che stiamo sottovalutando la crisi in atto. E in Sardegna non investe solo la politica ma anche la cultura, l’imprenditorialità, la società in generale. Oggi è tutto uno sfiorire di festival musicali e di folclore, di eventi carnevalistici, ma veicolati in modo consumistico. Le manifestazioni hanno finito per essere una sommatoria di personaggi più o meno famosi, ma tutti i discorsi virano verso il successo individuale. Si sono smarriti gli obiettivi di comunità. Non ci sono più intellettuali in campo, quelli che un tempo aiutavano a leggere la società e, se possibile, indicavano una strada. È come se oggi ciascuno parlasse per sé. Ma nel comunicare valutazioni, idee, sentimenti, desideri e intenzioni si perde di senso, se il linguaggio usato non corrisponde più alla realtà. Oggi i grandi termini a cui facevo accenno prima, come libertà, uguaglianza, famiglia o religione, hanno per ciascuno di noi un significato distinto. Ecco perché non ci capiamo più a vicenda. Si sta perdendo quel terreno valoriale che faceva commuovere, che produceva meccanismi di riscatto, emancipazione e inclusione. Uno dei compiti degli intellettuali era proprio quello di fare mediazione linguistica. Adesso tutto questo non c’è; i contenuti hanno lasciato spazio a un vuoto di significati.

Lo fa un appello almeno al Consiglio regionale?

Negli ultimi anni il Consiglio regionale si è letteralmente aggrappato al principio di insularità, senza tener conto del fatto che la crisi della Sardegna non è legata al mancato riconoscimento della sua condizione geografica, ma alla debolezza politica. Basterebbe applicare l’articolo 13 del nostro Statuto. Che recita: “Lo Stato, col concorso della Regione, dispone un piano organico per favorire la rinascita economica e sociale dell’Isola”.

Solo ai più distratti non era chiaro che il riconoscimento del principio di insularità in Costituzione, promosso dai Riformatori e sposato da tutti i partiti, era il solito specchietto per le allodole con cui la politica isolana provava a mascherare la propria inadeguatezza.

Purtroppo dal Consiglio regionale non si è alzata una sola voce per chiedere di dibattere sul destino dell’autonomia e dell’autogoverno in Sardegna. Questo dimostra che la politica isolana è in grave ritardo e in grande deficit di iniziative e sensibilità. La classe dirigente non è stata finora in grado di dare un senso nuovo al ruolo della nostra Isola in Italia. Invece bisogna farlo adesso, prima che il ddl Calderoli diventi legge.

Di cosa si dovrebbe parlare per rimettere la ‘comunità Sardegna’ al centro del dibattito?

Bisogna tornare a discutere di autogoverno, identità, solidarietà, uguaglianza, libertà e riscatto collettivo. Bisogna tornare a discutere di fiscalità giusta e di ridistribuzione. Oggi l’assenza di questi temi investe pure la scuola che sembra formare gli studenti perché arrivino al successo personale, perché facciano molti soldi, perché si occupino della propria carriera professionale in maniera individualistica. Invece ai giovani vanno forniti strumenti e capacità per guardare prima di tutto all’interesse generale. Oggi tante cose sono rimesse in discussione. Il percorso della distruzione sembra prevalere su quello della costruzione. La Cina aspira a diventare il nuovo leader mondiale; gli Stati Uniti stanno vivendo il più grande smarrimento della loro storia; l’Europa non riesce a stare insieme; il fantasma della guerra è a un passo da casa nostra; in Italia si guarda al regionalismo; i presidenzialismi francese e tedesco funzionano sino a un certo punto. In Sardegna, però, stiamo zitti o ci rifugiamo nell’insularità. Al massimo diciamo di voler andare a protestare a Bruxelles per la Continuità territoriale. Ma non riusciamo a fare un discorso complessivo.

In Sardegna i Fratelli d’Italia sono il primo partito e valgono da soli quasi quanto il resto del centrodestra.

Giorgia Meloni è arrivata al successo grazie alla sua capacità di semplificare i significati e le attese. Ma intanto il 40 per cento dei sardi rimane a casa e non va a votare. Avanza la Meloni e perdono consenso Berlusconi e il Pd. I cittadini sono alla ricerca eterna del nuovo, un rinnovato orizzonte legato ai significati di benessere e considerato raggiungibile solo puntando su chi si cimenta per la prima volta nel governo del Paese. La Meloni, non a caso, come leader è una novità e sta facendo lo sforzo di tranquillizzare. Ma non cambierà nulla in Italia. Anzi: aumenteranno coloro che hanno paura, sentimento tipico di una società invecchiata. In questo clima, la classe dirigente si permette, magari riuscendoci, di far passare come nuovi concetti obsoleti come il regionalismo. A questa deriva restauratrice è necessario opporsi. Il presidente Mattarella ci sta provando.

In che senso?

La sua stessa presenza a Sanremo lo dimostra. Lui, simbolo dello Stato e dell’unità nazionale, è andato al festival per portare l’istituzione contro l’avanzare dei populismi. Il modello personalistico e consumistico dominante educa a fare ciò che pare e piace. Nessuno dice più che siamo cittadini in una società, con una funzione civica. L’assenza di un argine collettivo è concausa di diseguaglianze crescenti, di ricchezza concentrata in pochissime mani. Ci sono manager che hanno stipendi talmente alti, da tagliarseli per milioni di dollari.

Come si può avviare un dibattito culturale?

Possiamo cominciare a dire cosa non fare. Perché io avverto spesso una certa schizofrenia. Per un verso, la Sardegna è la terra più bella del mondo e gli emigrati sardi sono i più bravi del mondo. Per un altro verso, sento dire che siamo una regione abbandonata e i sardi i più sfruttati e dimenticati. Beh, bisognerebbe mettersi d’accordo.

Prima non ha risposto: il Consiglio regionale cosa deve fare?

Ricontrattare lo Statuto speciale, prima che il ddl Calderoli lo spazzi via del tutto. Se questo non succederà, la nostra Isola è condannata ad avere scuole, sanità e servizi di secondo ordine. Se perdiamo la tutela dello Stato nei diritti fondamentali, diventiamo un territorio di serie B. Io credo che su questi temi si possa costruire la mobilitazione di tutti i sardi, inclusi i giovani. Il Consiglio regionale si alzi e chiami a raccolta il popolo sardo con un ordine del giorno-voto. La massima assemblea deve essere capace di produrre un documento per riscrivere un patto costituzionale con lo Stato. Bisogna rivolgersi al Parlamento con una rivendicazione precisa. Serve arrivare a una soluzione politica e legislativa che dia un nuovo senso alla Specialità. La Sardegna ha necessità di un nuovo accordo che guardi all’Italia ma anche all’Europa. Bisogna impegnare tutte le nostre forze in questa ricostruzione, in questa nuova elaborazione culturale e politica. L’ordine del giorno-voto al Parlamento è previsto dal nostro Statuto ed è stato usato una sola volta, il 17 gennaio del 1974, quando la Sardegna chiese e ottenne da Roma la seconda legge sul Piano di rinascita. Al documento lavorò una commissione presieduta da Paolo Dettori, il testo venne poi illustrato nel corso di una grande assemblea con cittadini, sindaci e sindacati. Non sarebbe male se l’attuale Consiglio regionale, per i pochi mesi che restano di mandato, si impegnasse a predisporre la nuova autonomia. Non c’è altra strada per salvare il nostro futuro. Questo è il momento per mobilitare il popolo sardo. Si darebbe uno sbocco pratico, moderno e concreto anche all’introduzione del principio di insularità in Costituzione che così verrebbe reso operativo nel nuovo patto costituzionale.

Per ora abbiamo un presidente della Regione accusato di corruzione per la promessa di una laurea honoris causa in Medicina e qualche docenza tra Tirana e Roma.

Solinas è un muro di gomma, non lo conosco e non lo posso giudicare. L’impressione che ne ricavo è che lui, sinora, ha gettato acqua sul fuoco delle polemiche in un rissoso centrodestra. Per Solinas va tutto bene, la Regione fa grandi cose. Il Psd’Az di Solinas somiglia a quella componente sardista che fece l’alleanza col fascismo pur di inseguire il potere.

L’opposizione in Consiglio regionale come la vede?

Soffre della stessa malattia di cui abbiamo parlato sinora. Anche l’opposizione è lo specchio della società.

A febbraio del 2022, nella tradizionale intervista annuale fatta col nostro giornale, lei fece un appello alla classe politica invitandola a sfruttare il 150° anniversario dalla nascita di Grazia Deledda per recuperare il filo della sardità e trovare una motivazione per costruire un nuovo rilancio economico. Da quegli eventi è venuto fuori solo un sistema di affidamenti diretti a società amiche, niente di più.

Ripeto: io non mi appello alla Giunta. Io mi appello alla società, agli intellettuali. Mi appello al mondo delle città e delle campagne. Agli imprenditori e ai sindacati. Aggiungo che oggi l’unica categoria che sta dimostrando vitalità è la pastorizia, proprio coloro che sembravano destinati a scomparire. Se c’è una classe sociale che ha compiuto il percorso di modernizzazione, che ha applicato le tecniche produttive migliori, questa è data dagli allevatori sardi. La parte più arretrata della società è diventata quella più all’avanguardia. A me sembra che una speranza per la Sardegna ci sia: l’esperienza dei pastori dimostra che cambiare la nostra Isola è possibile. Ma non si può fare a meno di una grande mobilitazione sociale intorno ai nuovi elementi che devono costituire una società solidale e una fiscalità giusta. Il nuovo orizzonte di senso per le generazioni più giovani non è Solinas né lo sono le diatribe interne al Pd. Perché il futuro non sia uguale al passato, bisogna aggiornare i concetti e unirsi in un progetto di rivendicazione nei confronti dello Stato. Il rischio da evitare è che in Sardegna i diritti fondamentali, come la scuola, i servizi e la salute, risultino meno garantiti rispetto a quelli delle regioni più ricche. Questo deve essere uno dei punti nevralgici del discorso. Il secondo versante riguarda il peso politico ed economico della nostra Isola: con il Mediterraneo convertito in elemento centrale del nuovo equilibrio mondiale, noi dobbiamo poter utilizzare la nostra posizione geografica per orientare la politica nazionale ed europea. Il futuro dei sardi lo devono decidere i sardi.

Un’ultimissima cosa, presidente: i partiti sembrano andare a scatafascio, la Giunta regionale è quella che è, l’opposizione in Consiglio è debolissima. Alla fine chi sta comandando in Sardegna?

Ogni volta che parlo con persone che conoscono, sono tutte concordi nel sostenere che è cresciuto moltissimo il ruolo della massoneria. Non fosse altro che il potere non si autogestisce, c’è sempre qualcuno che lo controlla. Ecco, a me non piace che questo succeda. A me non piace che la massoneria, o qualcosa di simile, faccia quello che spetta ai partiti e ai cittadini democraticamente eletti.

Alessandra Carta

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