Pietrino Soddu prende in prestito lo slogan di Macron per chiamare i sardi, soprattutto “le nuove generazioni”, a una “stagione di mobilitazione”. Dice: “Alla nostra Isola bisogna dare uno sbocco”, adesso che “lo Stato non ha più soldi per supportare lo sviluppo locale”, adesso che “il welfare è in crisi”, adesso che “il lavoro non è più garantito”. Soddu, il tre volte capo della Giunta e poi parlamentare, già un anno fa, in un’intervista a Sardinia Post, suonò la sveglia sulla necessità di una “rivoluzione spirituale”. E su quella strada continua: “Dobbiamo mettere la Sardegna en marche, verso un progetto unitario di crescita. Oggi ce ne sono troppi, col paradosso che non se ne segue nemmeno uno. Ogni comparto economico ha una sua visione, invece serve costruire un orizzonte comune”.
Onorevole Soddu, come nasce quest’idea di mettere la Sardegna en marche?
Il 5 giugno scorso, insieme a Giorgio Macciotta, l’attuale presidente della Fondazione Gramsci, abbiamo organizzato un convegno a Sassari, dal titolo “Progettare il futuro”. In quell’occasione, seguendo un ragionamento che parte da lontano, siamo convenuti sulla necessità di una mobilitazione delle strutture complessive e pluraliste della società sarda”.
Chi è intervenuto al dibattito?
Il presidente della Fondazione Sardegna, Antonello Cabras, quello del Consiglio regionale, Gianfranco Ganau, i segretari di Cgil e Cisl, Michele Carrus e Ignazio Ganga, i presidenti di Anci e Cal, Emiliano Deiana e Andrea Soddu. C’erano poi diversi esponente della sinistra ex comunista come Pier Sandro Scano. Ai lavori hanno partecipato anche gli storici Manlio Brigaglia, Luciano Marrocu, Antonello Mattone e Luca Lecis, così come il giornalista Giacomo Mameli. In platea, tra gli altri, il presidente del Banco di Sardegna, Antonello Arru, e l’assessore alla Sanità, Luigi Arru (i due sono fratelli).
Eravate tutti d’accordo?
È fin troppo evidente che la politica sarda sia ridotta a scontro tra le maggioranze e le opposizioni che si alterano nel governo della Regione. Ma a differenza di quanto accaduto dal ’48 e sino alla fine degli anni Settanta, i partiti non hanno più obiettivi generali comuni. Obiettivi che la Sardegna repubblicana del dopoguerra aveva individuato nell’autonomia e nella rinascita, le quali sono andate a costituire un paradigma politico ormai consumato.
Ma scusi: Ganau e Cabras la Sardegna potrebbero cambiarla perché, direttamente e indirettamente, la governano. Non trova che sia un controsenso coinvolgere in questo nuovo percorso chi ha responsabilità oggettive nel ritardo dello sviluppo?
Io non voglio entrare nel merito delle posizioni occupate dalle persone citate. Anche perché le istituzioni esistono a prescindere da chi le governa in un determinato momento. La mobilitazione deve stare al di fuori del potere e della sua lotta. Deve coinvolgere la società civile, dando al popolo sardo un nuovo orizzonte. Tuttavia, quando parlo di paradigma politico consumato, non intendo dire che tutto sia da buttare. Anzi. Pongo semmai la questione di attualizzare i modelli. Autonomia e rinascita sono il passato perché hanno esaurito la loro capacità propulsiva: l’una venne declinata come rivendicazione secolare, finalizzata all’emancipazione culturale, sociale ed economica della nostra Isola; l’altra fu intesa come superamento del sottosviluppo. Oggi è mutato il contesto. La Sardegna va riletta alla luce dei cambiamenti epocali che hanno attraversato il mondo, l’Occidente soprattutto. Quel percorso di autonomia e rinascita ha permesso prima la modernizzazione e poi la terziarizzazione. Ma ci sono anche macerie, come ad esempio la questione ambientale e quella del lavoro qualificato: vanno affrontate, trovando appunto soluzioni adeguate.
Quali?
Si è discusso sulla possibilità che la Fondazione Sardegna eroghi proprie risorse per sostenere la crescita. Questo nella pratica. Ma il passo prima, sui contenuti, deve far sì che venga pensato il nuovo progetto economico e culturale. Oggi a essere frammentato non è solo il tessuto produttivo e sociale della nostra Isola. La parcellizzazione, quasi in un ossimoro, è il prodotto più visibile della globalizzazione. Ma proprio per evitare che la Sardegna la subisca, è necessario definire un programma di sviluppo, partendo dai cittadini. Paradossalmente solo la Chiesa parla oggi dell’umanizzazione dell’antropocene che stiamo vivendo, e lo fa spiegando l’assurdità di dividere il mondo in bianchi e neri, in ricchi e poveri. Questo 2017 è per la nostra Isola l’anno gramsciano. Nel 2018 e nel 2019 si celebra il settantesimo anniversario dello Statuto sardo e della prima Assemblea regionale, rispettivamente. Si tratta di un arco temporale che va colto nella sua solennità, traducendolo nell’avvio di una nuova tappa.
Tra ventuno mesi massimo, si riaprono le urne delle Regionali. Pensa a un governo di unità sarda?
Io sto proponendo di trovare un nuovo orizzonte comune per la Sardegna. Politicamente ed elettoralmente ho le mie opinioni e penso che i partiti non stiano attraversando il loro miglior momento. Li vedo confusi e sbandati. Ma se vogliamo che riprendano vigore e riconquistino la fiducia dei cittadini, occorre che le strutture della società civile abbiano ruolo e responsabilità. Del resto la Sardegna non può avanzare senza un nuovo paradigma. Bisogna progettare una forma unificata di crescita, facendo in modo che fondazioni, enti locali, sindacati, associazioni di categoria e intellettuali lavorino insieme. Anche con le università e il mondo della scuola. Occorre un progetto in cui facciano la propria parte pure i media, quelli nuovi e i tradizionali. Il progresso non è morto. Il progresso è arenato perché non si trova una chiave per farlo avanzare. Per questo bisogna prendere consapevolezza dei problemi. Nessuno si sta occupando di questo aspetto, cioè della costruzione di un nuovo senso comune di Sardegna. Che deve vedere in prima linea la società civile tutta, perché attraversata dal cambiamento. Il rinnovamento, in un’attesa quasi messianica, i partiti hanno anche provato a farlo. Ma il percorso non è mai davvero decollato perché il corpo sociale è stato escluso. Una grossa responsabilità ce l’hanno pure gli intellettuali, la cui assenza è stata pesante: non si sono impegnati abbastanza nell’elaborare un pensiero nuovo per la Sardegna, capace di risvegliare coscienze e stati d’animo. Se tutto questo non lo facciamo noi, il senso comune lo plasmeranno i poteri globali, con conseguente perdita della nostra identità e il rischio che venga messo in pericolo anche l’ordine democratico.
Gli indipendentisti, almeno sui social, danno l’impressione di aver deciso di organizzarsi.
La Sardegna, per dirla alla Gramsci, ha bisogno di un’egemonia. Cioè di qualcuno che detti la linea. Oggi i partiti si limitano a cercare consenso. Invece, con la globalizzazione che uniforma non solo l’economia ma anche gli stili di vita, c’è la necessità di darci un’identità. Ripeto: culturale, non solo economica. La stessa categoria dell’indipendentismo è insufficiente e molto generica per come viene proposta adesso. Voglio dire che non è più lo Stato la struttura politica di riferimento con la quale aprire la guerra. Oggi è in discussione un concetto ben più ampio, ovvero il sapere dell’agire illuminista del Settecento. Davanti a una rivoluzione di questa portata, dobbiamo ripensare il nostro stare nel sistema.
Per tornare al gruppo che il 5 giugno ha discusso di questa nuova sfida: si tratta di una classe dirigente che, negli anni, non è riuscita a garantire alla Sardegna nemmeno il minimo sindacale previsto per legge, come le quote Iva e Irpef. I sardi come fanno a fidarsi?
È per questo che l’assunzione di responsabilità diventa fondamentale nella costruzione di una visione unitaria di Sardegna, in cui le coordinate non possono essere solo l’assistenzialismo e su connottu. I quali rischiano, anzi, di trasformarsi in vittimismo e folklore. Il cambiamento deve coinvolgere tutta la società, dalle comunità minori alle città, dall’agricoltura alla pastorizia. Nessuno universo economico può restare immobile: va innovato, anche quando è portatore di identità. I processi complessi della globalizzazione bisogna gestirli in maniera dinamica, il cambiamento di senso quasi totale è una necessità. Questo sforzo lo sta facendo soprattutto la Chiesa, in una sorta di nuova Pentecoste interpretata come comprensione di tutte le lingue e i bisogni del mondo. Una Pentecoste che va accolta e considerata, perché in questo percorso di rinnovamento rappresenta un contributo fondamentale per la costruzione del nuovo senso comune.
Riforma degli enti locali, Iscol@, Asl unica, nuova legge urbanistica, semplificazione amministrativa e piano regionale per le imprese. È questo il lavoro finora fatto da Giunta e maggioranza di centrosinistra. Trova che non stiano innovando abbastanza?
Sono tutte cose importanti, ma non vengono percepite come innovative perché manca il quadro di riferimento generale. Che deve comprendere identità, coesione, lavoro, ambiente, giustizia, libertà, uguaglianza e fraternità. Un nuovo sistema di valori da declinare nel mondo di oggi.
Alessandra Carta
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