di Vito Fiori
Meno male che aveva scelto il low profile. All’indomani della notifica del provvedimento di decadenza, e per un mese, nelle sue uscite pubbliche, la presidente della Regione Alessandra Todde si era limitata a dire di avere la massima fiducia nella magistratura, di essere tranquilla, di aver fatto tutto come doveva essere fatto, sempre con modi garbati quanto fermi. Ieri mattina, però, quei toni soft, ai quali aveva chiesto anche al suo entourage di adeguarsi, sono improvvisamente spariti. “Giorgia (nel senso di Meloni) docet”? Evidentemente sì, almeno a sentire il durissimo atto d’accusa che Todde ha illustrato in aula nella seduta Statutaria del consiglio.
Ne ha avuto per tutti, dal Collegio di garanzia per le elezioni alle opposizioni, sino ai giornalisti. Una filippica che non ha risparmiato nessuno. Ma, in particolare, a colpire in questa sortita ufficiale è la linea utilizzata dalla governatrice: la stessa della premier Meloni. Quest’ultima ad accusare i giudici – che l’hanno informata di essere stata sottoposta a un’indagine giudiziaria – di creare un grave danno all’Italia, il Paese che lei sta cercando di ricostruire nell’interesse dei cittadini.
La Todde, nel suo piccolo, si è riferita invece alla Sardegna, al voto dei sardi che qualcuno (il Collegio di garanzia) vorrebbe svilire rendendolo addirittura vano, stravolgendo così la volontà popolare. Sia Todde che Meloni sono convinte di essere le salvatrici delle patrie, italiana e sarda, e che questo non piacerebbe ai “poteri forti” (il complottismo, è risaputo, è nel dna di Fdi e del M5s). Si sentono entrambe vittime e perciò reagiscono, scatenando le opposte fazioni in un tifo da stadio da far inorridire i veri ultras (basterebbe leggere i commenti sui social).
Ma i peggiori nemici delle due primedonne sono, manco a dirlo, i giornalisti e i loro racconti della realtà. “Comunicazione da spettacolo”, “frenesia mediatica”, le espressioni che Todde ha usato per definire il lavoro degli organi di informazione in questo mese. Sbagliando, perché sino a quando in Italia esiste la libertà di opinione, tutti sono liberi di dire la loro, piaccia o meno a un presidente di Regione, un sindaco, un premier.
Sapeva, Alessandra Todde, che vincere le elezioni avrebbe comportato una sovraesposizione mediatica, cosa a cui, peraltro, proprio lei non si è mai sottratta. Allora andava bene parlare con i giornalisti, adesso un po’ meno solo perché è finita, suo malgrado, in una vicenda incredibile il cui epilogo è ancora da scrivere. Fermo restando il dispositivo del Collegio di garanzia, nella sostanza abnorme, arrivato grazie anche ai voti di chi avrebbe potuto e dovuto astenersi dall’esprimersi.
Rimane, tuttavia, la genesi dell’affaire Todde, causata, forse, da errori di approssimazione o di sciatteria di chi si è occupato della campagna elettorale. Nessuno l’ha accusata di malafede o di disonestà, tutt’al più di avere consigliori incompetenti. E le critiche degli avversari ci stanno, ci mancherebbe. In ogni caso, il contrattacco della Todde è sembrato un po’ troppo sopra le righe. La bufera per il momento è passata, naturalmente in attesa della decisione del tribunale di Cagliari. Ora sarebbe meglio impegnarsi nel risolvere i problemi della Sardegna, che sono tanti, a partire da quella massa informe rappresentata dalla burocrazia regionale che rallenta tutto e tutti e sta alla base della nostra arretratezza.