Se l’Isola è ridotta a cliché per turisti: Mereu torna nei cinema con Assandira

Il fuoco ha lasciato solo cenere e macerie, carcasse di animali bruciati e un uomo perduto sotto la pioggia, con uno sguardo carico di vergogna e il peso di una colpa a cui non siamo in grado di dare un nome. Si chiama Costantino Saru, pastore settantenne, e intorno a lui l’incendio ha reso Assandira quello che era un tempo: un “niente di nessuno”. Fino a poche ore prima quel luogo era stato il teatro di una messinscena a uso e consumo dei turisti. L’idea era venuta al figlio Mario e alla compagna tedesca Grete: quella di recuperare un vecchio rudere del padre a Gennemari e trasformarlo in un agriturismo, Assandira appunto, dove gli ospiti potessero vivere l’esperienza del mondo agropastorale e delle tradizioni dell’Isola. Tutto riprodotto per finta e per il divertimento del pubblico pagante: dall’accoppiamento di due cavalli – la femmina agghindata con il velo da sposa – alla mungitura, dalla morra alla tecnica di fumare “a fuoco dentro”. E ancora storie cruente di banditi e discorsi sulla fratellanza con le pecore, pasti a base di maialetti e abiti tradizionali, i panni della “mascherata”: gambali, camicie senza colletto, berrittas, bisacce e sacchi di orbace. Una profanazione, secondo Costantino, che il pastore lo aveva fatto fin da bambino e che pure a un certo punto – nonostante la contrarietà – aveva deciso di interpretare una parte in commedia per amore del figlio. Un modo per avere la possibilità di tornare nell’Isola e di fare soldi, secondo Mario – emigrato in Germania – e la compagna. Tutto però era finito nel peggiore dei modi: il fuoco aveva distrutto l’agriturismo, il ragazzo era morto e Grete – incinta di qualche mese – ricoverata in ospedale. Lasciando solo Costantino insieme al magistrato e ai carabinieri. E a un racconto molto difficile da mettere a fuoco e condividere.

Assandira è il nuovo film di Salvatore Mereu, regista 55enne già autore di pellicole celebrate come Ballo a tre passi, Sonetàula, Bellas Mariposas. L’opera è liberamente ispirata all’omonimo romanzo di Giulio Angioni (uscito nel 2004 per Sellerio) e mette in scena una serie di conflitti: familiari in primis e poi di concezioni del mondo, nel racconto di una terra che si apre al “nuovo” innescando un cortocircuito tra tradizione e modernità. Un dramma dell’identità che racconta innanzitutto il peso di un tradimento: nei confronti di sé stessi e delle proprie origini. “Leggendo il libro ho provato un sentimento di indignazione nei confronti della rappresentazione di quel mondo a cui appartengo, quello della Sardegna rurale, massacrato dall’industria turistica, dall’idea che in nome del guadagno facile si possa passare sopra tutto, anche sopra la dignità delle persone”, ha detto il regista dorgalese presentando il film. La pellicola – prodotta da Viacolvento e Rai Cinema e distribuita in Italia da Lucky Red – è stata presentata fuori concorso alla Mostra del cinema di Venezia e poi mercoledì a Sa Manifattura a Cagliari, in collaborazione con la Sardegna Film Commission che ha contribuito a finanziare e sostenere il film. Ora Assandira è protagonista di un tour di presentazione nell’Isola: stasera a Nuoro e Palau, sabato a Quartucciu, Cagliari e Sestu, domenica a Dorgali e Tortolì. Il regista sarà accompagnato dal cast: un sorprendente Gavino Ledda, che a quasi 82 anni si toglie la soddisfazione di esordire al cinema da attore con un ruolo da protagonista, quello del pastore Costantino; Anna Konig (Grete), Marco Zucca (Mario), Samuele Mei (Peppe Bellu), Corrado Giannetti (il magistrato Silvio Pestis).

“Le storie una volta raccontate ognuno ne fa l’uso che vuole”, dice a un certo punto il magistrato a Costantino. Mereu, lei che uso ha fatto della storia raccontata da Angioni?

Quella è la risposta che il magistrato dà al protagonista quando Costantino gli chiede: cosa ne vuole fare di questa storia, signor giudice? Forse è una domanda che rivolge a se stesso ma chiama in causa anche noi: cos’è una storia, come cambia a seconda dell’angolazione? È uno dei temi del film. Assandira è vista attraverso gli occhi di Costantino ma non sappiamo se il racconto sia frutto solo degli accadimenti reali o se ci sia qualcosa che altera il suo racconto, se non incidano anche il senso di colpa o l’elaborazione del lutto. Nel disegno originale del film c’erano delle scene raccontate anche dal magistrato. Il modello era Rashomon di Kurosawa, con un racconto ricostruito da punti di vista diversi. Apparenza, ricostruzione della realtà sono temi che percorrono un po’ tutto il film. Fin dall’utilizzo smodato delle polaroid da parte di Grete, che durante il film dice spesso ai turisti: potete fare foto. Tra l’altro sottolineerei la grande forza profetica del libro di Angioni, che già 16 anni fa denunciava questa deriva della fotografia e dei selfie, l’attitudine a non vivere più il presente ma la sua rappresentazione.

A proposito di Angioni: ha avuto modo di confrontarsi con l’antropologo a proposito del libro e del film?

Lui mi diceva sempre: mi piacerebbe che chi legge questo libro non avesse la percezione esatta di chi è veramente il responsabile. Del resto la preoccupazione – anche nel film – non è svelare chi abbia appiccato l’incendio ma capire come si arrivi a un gesto catartico come quello. Il confronto con Giulio è avvenuto sull’adattamento. Non ha voluto farsi coinvolgere nella scrittura perché riteneva il libro e il film due cose distinte. L’ho frequentato molto, è nata una bella amicizia. Ricordo che non era uno scrittore geloso della sua creazione. Metteva nel conto anche la possibilità di un tradimento, che in un adattamento ci può stare. A questo proposito Gavino nella sua vita ha vissuto l’esperienza del tradimento della sua opera e credo che il suo rapporto col cinema non sia del tutto pacificato…
Interviene Gavino Ledda. Se dovessi fare un parallelo tra il mio libro, Padre padrone, e l’adattamento dei Taviani, e tra l’opera di Angioni e il film di Salvatore, direi che io sono stato tradito mentre lui il libro è riuscito a valorizzarlo. Se il film dei Taviani è veramente un capolavoro questo lo stabilirà la storia. Voglio aggiungere una cosa sul mio personaggio. Costantino è una persona che viene veramente dalla Sardegna e mi sono identificato molto con lui. Quasi quasi mi è dispiaciuto non averla bruciato io quella sodoma di Assandira, dove si vendevano e si svilivano i resti di una pastorizia che non c’è più. Costantino si ribella in modo forte: ma tutto il mondo è un’Assandira.

Gavino Ledda, foto di Giorgio Marturana per Sardegna Film Commission

Il magistrato verso la fine del film ripete alcune volte all’indirizzo di Costantino: io non la capisco sa? È confuso, quasi sconsolato. Empatizza, sembra star male per lui.

Se ci fai caso il magistrato in maniera maieutica cerca di far tirar fuori al pastore quello che non vuole dire. Del resto nel corso dell’interrogatorio le cose che racconta a noi non le racconta a lui. Insiste: cosa è successo? Poi ce lo dirà? Il magistrato è una figura interessante perché potrebbe sovrapporsi a quella del narratore. Ha la stessa pietas. Si trova davanti un uomo che è come un vecchio finito sulla battigia dopo la tempesta: cerca di confortarlo. E Costantino, con tutte le riserve possibili, in fondo vuole farsi adottare da lui. Ha una colpa che sente di dover espiare e non può tenersi tutto dentro. Decide di raccontare quando capisce che non c’è alcuna prospettiva di vita futura.

Salvatore Mereu, foto di Giorgio Marturana per Sardegna Film Commission

Fin dall’inizio il peso della colpa si percepisce quasi fisicamente. Insieme a uno sguardo che è carico di vergogna: non solo per l’essere sopravvissuto a un figlio, ma in definitiva per tutto quello che Assandira ha rappresentato.

Bisogna considerare il mondo da cui proviene Costantino. Dice: nella mia vita non ho mai avuto la possibilità di sognare, di lasciarmi andare. La vergogna è la misura delle cose, di ciò che è lecito e di ciò che non lo è. Prova vergogna anche per aver permesso tutto questo.

Ci sono alcune differenze importanti rispetto al libro. La figura di Grete, ad esempio: risulta forse più cinica e “negativa” rispetto a quella delineata da Angioni.

Effettivamente nel libro lei è più spontanea, naif. Non calcola fino in fondo la portata delle sue iniziative: ritiene che quello che fanno lo fanno a fin di bene. Ma la passione che corre nascosta dentro l’animo dei personaggi nel film li fa rivelare in una tridimensionalità che nel libro non c’è e che probabilmente non era nemmeno intenzione dell’autore tirar fuori, concentrato maggiormente sullo sguardo dell’antropologo. A me interessava molto il lato umano, l’idea di un microcosmo familiare con passioni forti, nascoste anche a loro stessi. L’epilogo verso il dramma e poi la tragedia andava corroborato dall’approfondimento della natura dei personaggi e non solo dalla ricognizione della deriva denunciata da Angioni.

Veniamo al nucleo “politico” del film: il racconto di come alcuni aspetti dell’identità dell’Isola vengono banalizzati e impacchettati per il divertimento dei turisti.

Costantino è censore di questa deriva. Quando il figlio e Grete gli dicono che vogliono mostrare il lavoro del pastore per intrattenere gli ospiti dell’agriturismo, lui dice che non c’era nulla di divertente nel suo lavoro, che neanche i bambini volevano giocare a fare i pastori. Curiosamente la cronaca di questa estate ci ha mostrato i danni di un certo modo di intendere il turismo in Sardegna. Oggi sembra quasi una avventura da reality in cui vengono montate su delle attrazioni, si vende l’abboccamento col finto bandito… C’è un vecchio racconto di Ennio Flaiano che nel ’68 è diventato un film di Marcello Fondato, I protagonisti, ambientato in Sardegna. Dei gitanti stanno in un villaggio della Costa Smeralda e sono annoiati. Allora decidono di andare in un luogo imprecisato dell’Isola, come in un safari, per farsi una foto con un bandito. Come se fosse una zebra o un altro animale esotico. Ecco: eravamo visti alla stregua di zebre. Ma voglio precisare che non c’è un giudizio negativo sull’industria turistica in quanto tale. Sappiamo bene come ormai sia un motore dell’economia sarda. Ma in certi casi l’industria turistica è come quella dello spettacolo: cerca scorciatoie, vende modi di vita e sentimenti, frulla la dignità umana.

Com’è nata l’idea di assegnare il ruolo del protagonista a Gavino Ledda?

Ho deciso quando mi sono imbattuto in una sua foto: lui seduto sotto una quercia in canottiera bianca con la barba di qualche giorno. C’era un mondo in quell’immagine, la storia di una umanità che sta scomparendo. Una storia inscritta nel suo volto. Mi sono detto: l’ho trovato, è lui. Avevo solo una preoccupazione: lui non è una icona così maneggiabile, è Gavino Ledda, richiama una storia talmente forte che temevo prendesse il sopravvento. Potevamo schivare questo problema perché non solo lui ha l’apparenza fisica ma anche la sensibilità di quel mondo: si trattava di trovare la misura. E siamo riusciti a costruire il personaggio insieme.
Gavino Ledda. Nei primi giorni è stato molto difficile, probabilmente perché facevo parte di quel mondo: il vissuto di Costantino era anche il mio. Poi ho sentito in modo forte la tragedia del personaggio, che passa da una dignità nuragica al fare il buffone per amore del figlio: e questo mi ha aiutato. Ricordo che durante le riprese a Salvatore non piaceva il colore della mia voce. Poi sono riuscito a trovare quello giusto: una voce che passava per la pancia. È stato davvero un film difficilissimo.

Andrea Tramonte

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