Roberta Muscas, l’antropologa che ha creato Olympias e “gioca” con le radici dell’uomo

Nuovo appuntamento con la rubrica Sardinia excellenceStorie, persone che rendono unica l’Isola a cura di Antonio Paolini una delle firme più autorevoli del giornalismo enogastronomico.

La sua ricerca sui giochi tradizionali sardi è divenuta un format già approdato in Tunisia, Emirati, Palestina. E nel ’26, Namibia


di Antonio Paolini

Si chiama Roberta Muscas, non è baronessa, è nata a Siamanna, 800 abitanti, provincia di Oristano, e non a Parigi. Ma potrebbe a buon diritto definirsi la “madame de Coubertin” dei giochi tradizionali (che in Sardegna includono tra l’atro i bisnonni e prototipi perfetti del baseball e del bowling). Quella che lei, Roberta, ha inventato, reso reale (dieci edizioni celebrate più una forzatamente svolta a distanza e indoor nell’anno del Covid) ed è dunque totalmente una sua creatura, non può chiamarsi Olimpiade per una precisa intesa sottoscritta con Coni e Cio, il Comitato olimpico internazionale; ma da entrambi le è stato concesso di chiamarla Olympias, che (tradotto dal greco) è come dire “di Olimpia”, la città dove i Giochi nacquero e da cui (grazie a de Coubertin, appunto) in era moderna ripresero nome e vita. Quanto al format (che include per ora 17 – diciamo così – discipline) è già stato esportato a Tunisi, in Palestina e negli Emirati Arabi (dove addirittura a Olympias è stato concessa una sede di rappresentanza stabile) e ha raggiunto, proprio nell’anno della pandemia, la Cina, con cui sono in corso contatti per nuovi sviluppi. Dalla Namibia intanto è appena arrivato l’invito a partecipare al mega evento “Infuse Cultural Diversity-The African traditional games” nel 2026.

Il sultano Muhammad Al Qasimi consegna i premi per i giochi negli Emirati Arabi

Muscas con il suo “chiodo” è partita prestissimo. Già dalla tesi di laurea, centrata appunto sul gioco tradizionale nell’area del Mediterraneo e sulle sue origini, che quasi per ogni tipologia tramandata dalla… società mondiale dei bambini (“la più brava a conservare, altro che gli anziani!”, chiosa sorridendo l’antropologa) ha alle spalle un culto antico e il relativo rito. Conservato e tradotto, appunto, nella forma semplificata e laicizzata del “giocare a…”.

Per la ricerca sul campo propedeutica al varo della prima edizione dei “suoi” Giochi (che ad oggi hanno già visto impegnati oltre 3000 giovanissimi partecipanti) Muscas ha scelto la Marmilla, che rispondeva perfettamente a due precondizioni da lei fissate: altissima concentrazione di edifici storici (è per scelta sempre in centri storici comunali “praticabili” che sono ambientate le gare) e aura di verginità quasi integrale rispetto alla Sardegna più battuta, ma anche a quella ancora in seconda fila quanto a gentrificazione. Ma la studiosa non ha mai dimenticato neppure l’input iniziale fornitole dal borgo natio “dove – racconta – i ragazzini giocavano ogni giorno in strada e i nonni novantenni, sempre pronti a far da arbitri in caso di controversia e altro brandello di memoria, fortunatamente spessissimo in ottime condizioni qui, nell’isola dei centenari, a loro volta non scarseggiavano”.

Così il gioco avviato da Roberta Muscas è diventato (meglio: ri-diventato) la cosa serissima che è sempre stata. Coinvolgendo negli anni ben 70 Comuni dell’isola, ampliando via via il repertorio grazie a una “caccia” continua alla tradizione giocata condotta a mezzo di interviste incrociate ai “portatori di ricordi” trasformati in testimoni, e dando vita alla fine a un complesso sistema partecipativo che include bambini e ragazzi dai 6 ai 18 anni di età.

Duplice l’obiettivo: restituire i giochi “antichi” (e tutto il contenuto mitico che si portano dentro) alla società odierna e, in parallelo restituire a bambini e ragazzi il gioco “di cui sono stati deprivati – sottolinea Muscas. – Oggi non si gioca quasi più. Bimbe, bimbi e adolescenti sono impegnati in mille attività, farli scendere in strada come una volta è impossibile o ritenuto pericolosa eresia. Ma il gioco è un fattore nodale di crescita, una prova generale della vita, un addestrarsi a vittorie e ovviamente sconfitte senza che esse divengano definitive o letali, e stimola altrettanto ovviamente la creatività”.

Le giornate di Olympias, che hanno trovato sostegno prezioso nei Consorzi Due Giare e Sa Corona Arrubia, restituiscono ai futuri adulti anche le città: piazze e vie ne diventano teatro (alla lettera, perché insieme ai giochi anche i costumi e la scenografia sono quelli della tradizione profonda) attingendo a un forziere, quello sardo, ricchissimo. Perché è vero che da un lato ci sono giochi davvero senza confini (“bimbi cinesi e africani, marmillesi e nordici giocano con minime variazioni giochi fondamentali pressoché identici, a riprova ulteriore che non esistono razze salvo una, quella umana, e che i miti ancestrali dell’uomo si rincorrono simili attraverso ogni continente e Paese”). Ed è così, ad esempio, con la “campana”, che in Cina è fatta di cubi di cartone su cui saltare e da noi di linee tracciate in terra, ma ha sempre in fondo un approdo, per chi supera le difficoltà e i rimbalzi su un piede solo, che si chiama “cielo” o “paradiso”, ed è nel complesso la sintesi semplificata del mito eterno del Labirinto. O ancora “qui sull’isola si gioca il gioco delle 5 pietre: negli Emirati lo giocano con 5 conchiglie, hanno quelle, ma il gioco è pressoché uguale”. In Sardegna, però, poi si gioca(va) alla trottola cubica, con una lettera per faccia (ed è un gioco, profumato di divinazione e domande alla Pizia, riservato alla “magica” notte di Natale). Oppure coi Carruccius (la canna con una rotella che i bimbi di alcuni decenni fa non mollavano mai) o a Su Xrìcu, il cerchio da tener su col bastoncino, o col simil yo-yo ronzante dei nonni noto come Turruteu.

Ma a stupire ancor di più è quel quasi perfetto antenato del baseball che si chiama Su giogu ‘e su fusti: due squadre di due giocatori ciascuna disposte frontalmente e, come nello sport più amato negli Usa, una che attacca e una che difende. Cosa? Delle buche che fungono da basi, in cui va lanciato il bastoncino per conquistarle mentre l’avversario deve allontanarlo colpendolo al volo con la sua mazza. In caso di battuta riuscita, chi l’ha messa segno gira le buche (le basi) facendo punti finché un avversario non arriva a proteggerla (la classica eliminazione con la palla dello sport moderno).

E non finisce qui. Perché del repertorio fa parte anche il prototipo seminale del bowling. Giocato con pietre arrotondate al posto delle bocce e cinque tronchi appuntiti di cui il centrale (Su Doxi), più alto degli altri, vale 12 punti e gli altri (i Brillias, serve tradurre?) hanno valore minore. Si vince a quota100: e bisogna arrivarci centrandola senza oltrepassarla, o si è penalizzati. Dunque, occorre abilità e precisione… Ma si può fare a meno, però, delle apposite scarpette…

Antonio Paolini è una delle firme più autorevoli del giornalismo enogastronomico. È coordinatore Guide food Gambero Rosso. Ha co-fondato e scrive per la testata web Vinodabere.it. Ha lavorato a lungo al Messaggero (Esteri, Economia, wine & food columnist), ed è stato curatore dei Vini dell’Espresso e nel comitato esecutivo della Guida ai Ristoranti d’Italia. Ha scritto tra gli altri per L’Espresso, Spirito Divino, Monsieur, La Cucina Italiana, I Fiori del Male, e pubblicato decine di Guide. Nel 2008 gli è stato attribuito il Premio Veronelli. Attualmente collaboratore del gruppo Sae.

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