Nicola Lecca dopo Grazia Deledda: ‘Hotel Borg’ negli Oscar Mondadori

“Sono un artigiano della letteratura”, dice di sé lo scrittore cagliaritano Nicola Lecca quando racconta il suo metodo di lavoro e si sofferma sul tempo che trascorre a scrivere ogni pagina, a scegliere, pesandole con calma, le singole parole. “In media impiego una settimana a pagina, tra documentazione, interviste, scrittura, e poi seconde, terze bozze, correzioni, integrazioni. Per me è fondamentale la cura di ogni dettaglio, come mi ha insegnato il mio maestro Mario Rigoni Stern”. È questo il segreto della sua “lentezza”: la necessità di prendersi il tempo necessario per fare le cose, senza fretta, ansie, sbavature, senza dover per forza uscire con qualcosa di nuovo ogni tot magari per sole ragioni di mercato. Per chiudere Hotel Borg, uscito originariamente nel 2006, ci ha impiegato sei anni. Ha vissuto un anno e mezzo in Islanda, girato a lungo e parlato con un centinaio di persone. L’idea era quella di approfondire un luogo su cui aveva iniziato a fantasticare fin da bambino e che per lui rappresentava “l’alterità assoluta”: da un’isola del Mediterraneo a un’altra nell’oceano Atlantico nell’estremo nord dell’Europa “dove c’è freddo e non si può fare il bagno”. “Non si trattava semplicemente di conoscere una città diversa: l’Islanda è come se fosse un continente a parte che vive nell’isolamento totale”.

Il romanzo è tornato d’attualità perché è stato appena ristampato in formato tascabile negli Oscar Mondadori, nella nuova collana “451” dedicata alla letteratura contemporanea. Lecca è il secondo scrittore sardo – dopo Grazia Deledda – a entrare a far parte del catalogo di una delle più longeve collane italiane. “Il risultato di un duro lavoro”, dice, legando questa nuova tappa del suo percorso alla sua attitudine nell’essere scrittore. “Ne è la prova che un libro uscito dodici anni fa non sia mai uscito dal catalogo. Cura e amore nello scrivere danno frutti a lungo termine. L’uscita nella collana è come una medaglia al valore. Una fettina di eternità: gli Oscar li ristampano sempre. È una cosa che ti stimola e ti sprona: la medaglia dà anche il dovere di portarla e di continuare a esserne all’altezza”.

In Hotel Borg cinque storie si intrecciano e convergono su un punto fisico – la città di Reykjavik, l’albergo del titolo – e un momento decisivo, quasi terminale: l’ultimo concerto di un celeberrimo direttore d’orchestra, Alexander Norberg, che decide di abbandonare le scene con un’ultima, magistrale esecuzione dello Stabat Mater di Pergolesi. Insieme a lui, la cantante lirica Rebecca Lunardi, “donna solitaria e arrogante” ormai al termine della carriera, e la voce bianca Marcel Vanut, ragazzino sulla soglia dell’adolescenza e quindi del cambiamento irreversibile della sua voce. Poi c’è Oscar, ragazzo originario di Goteborg impiegato come “buongiornista” in un hotel di Londra (il suo unico compito era quello di dire buongiorno agli ospiti dell’albergo) che si trasferisce in Islanda perché vuole partecipare al concerto a tutti i costi, e Hakon, dongiovanni e maestro di vita sregolata per i giovani di Reykjavik. Ognuno di loro sembra dover fare i conti con se stesso, inseguendo una scelta e un momento che può rappresentare una “fine”. “Ma non è una fine – precisa Lecca – è un cambiamento. Il romanzo racconta il cambiamento come fonte di vita. La scelta di fare quello che ci rende felici: la scelta di vivere”. In questo senso è illuminante quello che pensa il direttore d’orchestra, che deriva da una sensazione fortissima di solitudine: “Adesso non sono più niente: appena la musica finisce, anch’io finisco”. “Il direttore a un certo punto inizia a vedersi da un altro punto di vista”, spiega Lecca. “Come se pensasse: nella mia vita ho creato un personaggio, ora rivendico il diritto a essere me stesso”.

Per l’altro personaggio centrale del libro, Oscar, le cose stanno un po’ diversamente. Concentra tutti i suoi sforzi nel cercare di partecipare al concerto: la sua è una ossessione che ha origine non nel voler essere se stesso, ma nel voler “esserci”. “Lui è convinto che la sua vita abbia senso solo se riesce a partecipare al concerto. Se vogliamo, questa ossessione coincide con quella di voler essere a tutti i costi popolari sui social. Ovvero, con quella di voler essere accettati, di essere amati da tutti senza se e senza ma: far dipendere il proprio valore da qualcun altro. Forse Oscar si renderà conto che non ne valeva la pena. Lui è un personaggio letterario, rappresenta la fragilità di non bastarsi, il senso di insoddisfazione, il bisogno di approvazione, di ottenere risultati. Con lui volevo provare a spiegare che bisognerebbe bastarsi: cosa c’è più importante di sé? Perché sacrificarsi per un’ambizione, per il desiderio di approvazione?”. E forse la sua “lentezza” come scrittore, la mancanza di fretta che Nicola Lecca rivendica come metodo e come sostanza del suo lavoro, è connessa a questa consapevolezza. “Mi interessa vivere. Mi piace stare in montagna, a 1200 metri, in mezzo alla neve, coi cavalli selvatici, in solitudine o con pochi amici. Se fossi esclusivamente uno scrittore e mi consumassi solamente a scrivere, farei dei libri orribili. O vivi o scrivi, diceva Luigi Pirandello”.

Nicola Lecca è uno scrittore nomade che ha vissuto all’estero a lungo. In Hotel Borg in tal senso c’è una dichiarazione quasi programmatica. “Continuare a vivere a Göteborg – scrive Lecca riferendosi a Oscar – sarebbe un atto di superbia verso le possibilità che il mondo, altrove, gli potrebbe offrire. Rimanere a Göteborg per sempre, insomma, significherebbe vivere dentro a un vaso, magari bello, ma stretto, e troppo alto per riuscire a scorgerne la bocca. Quanta vita mancherebbe di conoscere in un luogo così protetto e quanto dolore, d’altra parte, si risparmierebbe”. “Vivere è incontrarsi col mondo, diceva Heidegger. La curiosità verso l’altro è la base di una vita piena”, dice lo scrittore cagliaritano. “Ho visitato oltre trecento città e per anni ho vissuto in sette di esse. Ho assorbito tanto e sono riuscito a sentirmi a casa in tanti posti diversi”. Ecco perché nei suoi libri c’è tanto di tutto il mondo ma c’è anche la Sardegna, pur non essendo mai citata o esplicitamente raccontata. “Ho chiesto consiglio a Rigoni Stern, una volta, e lui mi ha risposto in questo modo: tu scrivi di Sardegna, e c’è molta più Sardegna nei tuoi libri che in altri dove l’Isola è citata. La tua Sardegna è nascosta tra le righe: racconti il mondo con gli occhi e la malinconia dei sardi. Quando me lo disse mi consolò, perché mi sentivo quasi un traditore. Ma sono convinto anche che se non mi va di ambientare un libro in Sardegna, non vedo perché mi debba forzare”.

Andrea Tramonte

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