‘L’agnello’, il film d’esordio di Piredda. Tra servitù militari e dramma familiare

La presenza dei militari nel film è discreta ma costante. Si percepisce nel rumore dei caccia in volo, nel passaggio dei cingolati da guerra e dei carroarmati, nei missili esplosi rimasti a terra senza che nessuno ne abbia rimosso le tracce, nei cartelli che vietano l’ingresso nell’area della servitù, nel filo spinato che delimita l’area inaccessibile a quella adiacente dove pascolano le pecore, un paesaggio arido di rocce chiare e tracce di macchia mediterranea di una Sardegna di montagna abbastanza selvaggia. Soprattutto si toccano con mano le conseguenze nelle vite delle persone, nel dramma di una famiglia che vive in una zona fortemente compromessa sul piano ambientale – a causa delle esercitazioni militari – e ne paga le conseguenze. Un uomo ha perso la moglie anni prima, uccisa dalla leucemia. Una figlia ora sta per perdere il padre – quell’uomo – per lo stesso motivo. “Tanto se non c’ammazzano subito lo fanno piano piano”, dice a un certo punto lei, Anita, con la rabbia confusa dei suoi 17 anni e la determinazione di chi non vuole arrendersi all’ineluttabilità della situazione del padre.

L’agnello è un film diretto dal regista quarantenne Mario Piredda e racconta una storia intima, dolorosa, che intreccia le vicende di una famiglia con quelle collettive della condizione di una terra. Ma lo fa in modo discreto, dosando gli ingredienti senza retorica o enfasi eccessiva. La misura è la cifra dell’opera. Riesce a essere politica e incisiva, probabilmente di più rispetto a un film esplicitamente di denuncia, e a far male, a rendere l’incertezza, il dolore e lo spaesamento dei personaggi senza mai indugiare troppo sul dramma, ma cercando – anzi – il contrappunto ironico, la leggerezza e la speranza. Come in una delle scene più belle e toccanti del film, quando il padre inizia a ballare nella corsia dell’ospedale civile di Cagliari insieme a una donna con cui ha fatto amicizia durante la terapia, anche lei malata di tumore.

Il film – una produzione Articolture, Mat Productions con Rai Cinema, il supporto della Fondazione Sardegna Film Commission e della Società Umanitaria Cineteca Sarda – è uscito nelle sale il fine settimana prima del lockdown ed è tornato sullo schermo da pochi giorni, grazie a una tournée di presentazione che per ora ha toccato Cagliari, Roma, Torino, Milano (in coda all’articolo le prossime date). “Sono felice che il film abbia ripreso a camminare”, dice il regista, originario di Badesi. L’opera si apre con il parto di una coppia di agnellini. Uno nasce deformato, praticamente morto. L’altro invece è vivo ma non mangia e sembra avere i giorni contati, spiega il pastore Tonino (interpretato da Piero Marcialis) alla nipote, che decide di portarlo a casa e di accudirlo. Anita – interpretata dall’esordiente Nora Stassi – è adolescente, suona la batteria e ha una rosa tatuata nel viso. Il padre Jacopo (Luciano Curreli) sta molto male: avrebbe bisogno di un trapianto di midollo ma i tempi di attesa rischiano di essere troppo lunghi, e le due persone a lui più vicine – il padre e la figlia – non sono compatibili. Ci sarebbe il fratello Gaetano (che ha il volto di Michele Atzori, anche lui all’esordio), ma rancori vecchi di anni hanno creato una distanza che sembra incolmabile. Con l’aiuto del nonno, Anita decide di presentarsi a casa dello zio per cercare di convincerlo a fare le analisi che potrebbero salvare la vita del padre.

L’agnello racconta una storia privata lasciando sullo sfondo il tema politico. Che però riesce a risaltare lo stesso. 

All’inizio volevo raccontare principalmente le vicende di un padre e una figlia, in un luogo ben preciso. Quando inizio a scrivere parto sempre da un’immagine, che poi compongo insieme ad altre immagini come se fossero tanti pezzi di un puzzle. Così mi sembra più semplice orientarmi all’interno della scrittura. Il tema della famiglia è presente anche nel mio lavoro precedente (A casa mia, premiato al David di Donatello, n.d.r.). Poi quasi per caso ho inserito nel film l’argomento delle servitù e le cose si sono concatenate. La convivenza tra civile e militare in certe zone dell’Isola è ordinaria quotidianità. Ma non volevo realizzare un film esplicitamente di denuncia: mi interessava il punto di vista di chi rimane “al di qua” delle recinzioni. Raccontare quello che succede all’interno non è facile: ho voluto raccontare la percezione che si ha dall’esterno.

A proposito del “luogo ben preciso”: in molte scene si staglia nettamente il paesaggio ogliastrino, a volte vero coprotagonista del film. Quanto hanno influito quegli spazi nella realizzazione dell’opera?

Il supramonte di Urzulei è una delle location, ma ci sono anche Marina di Tertenia, Cagliari. Ho scelto vari luoghi perché non volevo che risultasse un film su Quirra e Teulada. Anche se poi ho cercato un luogo che somigliasse a quelli, e la zona di Urzulei me li ha ricordati a livello morfologico e paesaggistico. I luoghi influiscono molto sulla mia scrittura. Molte scene sono state rielaborate e riscritte proprio in funzione delle location dove abbiamo girato. La scena del padre e della figlia che si parlano dalla strada interrotta dal fiume mi è stata ispirata da quegli spazi. Il paesaggio condiziona le scene e la messa in scena. Poi la scelta di raccontare una Sardegna così brulla, rude, ruvida, con quei colori precisi, viene dal fatto che è una parte dell’Isola che conosco, che esiste, c’è: mi sono voluto allontanare dai paesaggi che piacciono normalmente a chi conosce poco la Sardegna.

Ha detto che quando scrive parte da una immagine precisa. Per questo film qual è stata?

Il parto di un agnello, e non a caso è diventata la prima scena del film. Spesso quando scrivo brancolo un po’ nel buio e infatti quando ho iniziato a lavorare con lo sceneggiatore (Giovanni Galavotti, un professionista di alto livello che aveva già lavorato, per esempio, a L’uomo che verrà di Giorgio Diritti) mi ha detto: non ci siamo, rischiamo di impantanarci. Spesso è stato così. Ma questo è il mio metodo, una modalità di scrittura che mi piace e che vorrei continuare a portare avanti. Sono molto istintivo e a volte quando arrivo alla quarantesima scena trovo sempre il modo di cambiare le carte in tavola.

Si parte con l’immagine dell’agnello che nasce e si chiude con quello di una pecora, riversa a terra durante la tosatura.

Quando ho visto che la pecora rimaneva ferma in quel modo – come puoi immaginare è una cosa difficile da programmare -, con lo sguardo un po’ assente, quasi in estasi, ho deciso di fare quell’inquadratura e di utilizzare la scena in chiusura nel film. Racconta una rinascita. Ogni anno alla pecora viene tolto il vello, così respira, si rigenera e riparte. Non amo molto usare per forza delle simbologie nei miei film, però poi vengono fuori. Ci sono rimandi e metafore che mi piace lasciare lì chiedendo allo spettatore di trovare una propria chiave di lettura. Anzi, mi piace quando qualcuno dà un significato diverso alle mie immagini, quando – una volta che il film è finito e arriva in sala – i miei simboli diventano altro.

Tornando al significato “politico” del film, a un certo punto c’è un gesto di ribellione di Anita, che entra nell’area interdetta e vi rimane nonostante la richiesta dei militari di andarsene. Un gesto adolescenziale, che rimane fine a se stesso.

È il gesto di una ragazzina. Un atto istintivo, abitudinario anche. Lei dice: ci sono sempre andata. Il confine tra civile e militare è così labile che le persone entrano ed escono senza quasi accorgersene. Mi interessava mettere in scena il comportamento di una adolescente. Che lo fa un po’ per ripicca ma in fondo dice anche: voglio lottare, senza armi, strumenti e pure senza una coscienza politica ben precisa. Un affronto che magari non produce conseguenza, ma in fondo quando hai 17 anni non stai a pensarci troppo.

Quando Anita viene sgridata dal padre lei accusa lui e il nonno di difendere i militari. In effetti il loro atteggiamento sembra un po’ rassegnato. Il suo sembra quasi un atto d’accusa nei confronti delle generazioni precedenti che non hanno fatto abbastanza per affrontare il problema.

Sì, lei inveisce contro di loro in un momento di rabbia: il senso di quello che dice è che loro stanno zitti, non fanno mai niente per sottrarsi a questa situazione, subiscono e basta. È l’unico momento del film in cui si parla esplicitamente del problema.

L’ottima interpretazione di Nora Stassi colpisce molto anche per la sua naturalezza. Sembra quasi portare se stessa sul set.

Quando ho immaginato il personaggio ho cercato qualcuno che le somigliasse. Un po’ per pigrizia, un po’ perché non mi piace troppo lavorare con gli attori e ottenere un determinato risultato, ho cercato qualcuno che fosse proprio come Anita. Quando ho trovato Nora dopo un anno di ricerche – grazie al lavoro di Stella La Boccetta, responsabile del cast – ho subito capito che fosse la persona giusta. Poi naturalmente c’è stato molto lavoro dietro: era la sua prima esperienza davanti a una cinepresa. All’inizio avevo anche un po’ paura ma mi sono fidato perché istintivamente ho capito che meritava l’opportunità. In generale con gli attori non cerco di fare un lavoro di preparazione lungo e intenso. Per arrivare alla veridicità che voglio ottenere bisogna evitare che gli attori studino a memoria il copione, perché poi rischia di perdersi un po’ di naturalezza. Nel cinema che mi piace gli attori non recitano. Nora ha capito esattamente quello che volevo. Abbiamo visto dei film insieme e studiato alcuni personaggi che hanno quel modo di fare preciso: mi ha capito subito. Spesso ho usato anche dei trucchetti: se c’era da fare una scena in cui il personaggio era triste, allora toccavo dei tasti particolari e cercavo di farla incazzare. In questo modo durante la scena sarebbe stata arrabbiata con me e avrebbe cercato di dimostrarmi qualcosa. A beneficio della scena stessa.

Anche il rapporto col padre Jacopo è molto naturale: sembra esserci molta complicità tra i due attori.

Il suo personaggio era uno dei più difficili. Luciano è un attore straordinario e all’inizio l’ho provato per il ruolo dello zio. Ma durante l’audizione ho avuto un’intuizione: gli ho dato il copione del padre e gli ho chiesto di provare. Quando li ho visti recitare insieme ho notato subito che si divertivano parecchio: si stuzzicavano, battibeccavano. Forse all’inizio a Nora stava pure un po’ antipatico, magari per una forma di difesa visto che lei era alle prime armi e lui invece è un attore esperto. Dopo un po’ hanno iniziato a passare tempo insieme e sembravano davvero padre e figlia. Luciano è una persona di una umanità e una sensibilità impressionante. Si è messo completamente a disposizione di Nora e del set. Durante le riprese è dovuto partire a Roma per un altro lavoro e le mandava messaggi dicendo: “Figlia mia, mi manchi”.

Invece come nasce la scelta di Michele “Dr. Drer” Atzori per la parte dello zio?

Amo i musicisti e ogni volta che ne vedo uno in un film quell’opera mi piace sempre. Poi stavo cercando una faccia, un corpo particolare. Ho visto tantissimi attori, alcuni molto bravi, che mi è dispiaciuto non prendere. Però Dr Drer aveva qualcosa che mi ha fatto innamorare subito di lui, che mi ha fatto dire: “Ecco sì, il fratello di Jacopo è lui”.

Uno dei temi centrali del film – e in un certo senso “molto sardo” – è il conflitto decennale che investe i due fratelli, il fatto che non si parlino da tempo e rimangano inchiodati nelle loro convinzioni. 

Volevo raccontare diversi aspetti della Sardegna. Parlo di quello che conosco e non scrivo cose lontane dal mio vissuto, argomenti che non ho visto o toccato. In tante famiglie sarde ci sono scontri tra fratelli che vanno avanti a lungo. Quando ero piccolo mi affascinava vedere fratelli che non si rivolgevano la parola per decenni e magari a causa di motivi futili. È una cosa molto sarda, assolutamente sì. L’ho trovata anche in un bellissimo film islandese che ho visto dopo aver chiuso la sceneggiatura. Racconta di due fratelli pastori che vivono molto vicini e non si parlano da anni. Tutto il film – Due fratelli e otto pecore – ruota intorno a questo. Ed è molto bello. In realtà se lo doppi in sardo potrebbe essere tranquillamente un film prodotto nell’Isola.

Andrea Tramonte

Le presentazioni e le proiezioni del film:

25 LUGLIO
Neoneli, Piazza Barigadu, per il Licanias festival. Ore 22:00, con la presentazione del regista Mario Piredda.
25 LUGLIO
Velletri, al Cine Drive Velletri, Ore 21:30.
30 LUGLIO
Arbatax, per la rassegna Cinematografica Cal’a Cinema. Ore 21:00
Presenti gli Attori Michele Atzori e Piero Marcialis.
30 LUGLIO
La Maddalena, per il Festival “La Valigia dell’Attore”. Ore 21:15, presenti il regista Mario Piredda, Luciano Curreli e Nora Stassi
3 AGOSTO
Pula, Teatro Maria Carta, ore 21:30.
Con la presenza di Nora Stassi  e del regista Mario Piredda.
4 AGOSTO
Carbonia, Arena Mirastelle del Teatro Centrale, Piazza Roma.
Ore 21:30.
Presente il regista Mario Piredda, Michele Atzori e Nora Stassi
5, 6, 7 AGOSTO
Cagliari, Arena Manifattura Tabacchi, ore 21:30
alla presenza del regista Mario Piredda, dell’attrice protagonista Nora Stassi, e degli attori Michele Atzori, Luciano Curreli e Piero Marcialis.
Il film sarà in sala a Torino Dal 24 al 29 luglio al Cinema Centrale Arthouse(24-26 alle 19:30, 27-29 alle 21:30). Per info e biglietti: bit.ly/LagnelloCentrale
In sala a Milano dal 23 al 29 luglio al Citylife Anteo di Milano. Per info e biglietti: bit.ly/LagnelloAnteo

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