Il paroliere sardo della musica d’autore. Gianfranco Cossu, le sonore emozioni

Quando si parla di cantautori è facile cadere nei soliti stereotipi: un artista dall’aria dimessa, una chitarra e la testa piena di miti del passato, da Dylan passando per la grande sbornia italiana degli anni Settanta fino ai giorni nostri così confusi e impalpabili. Gianfranco Cossu è un cantautore di Sassari e si potrebbe inserirlo perfettamente nell’iconografia prefabbricata di cui si parlava. In realtà le cose sono più complesse e per fortuna ogni storia è una storia unica e irripetibile e anche la storia di Gianfranco merita di essere raccontata e seguita.

All’alba del nuovo secolo Gianfranco Cossu partecipa per alcuni anni, come chitarrista e compositore, alla strana avventura dei Nasodoble, una band insolita, imprevedibile che in questo nuovo millennio ha lasciato dei buoni lavori discografici e la sensazione che avrebbero meritato molto di più. Ma così vanno le cose della musica. Poi collabora con I Figli di Iubal e, nel 2007, pubblica Inquiete rumorose finzioni, il suo primo album con sette composizioni originali e l’apporto di diversi musicisti di Sassari. Nel 2013 arriva il suo secondo lavoro: Ottantaytambo dal nome di una antica città inca in Perù in cui è ambientato un breve racconto di Eduardo Galeano. Questo progetto è la diretta conseguenza di una serie di reading di testi dello scrittore uruguaiano con le musiche originali composte per l’occasione da un trio formato da Cossu alle chitarre, Paolo Carta Mantiglia ai clarinetti e sax e Nicolas Capettini al contrabasso. Musica per un Sudamerica mitico e immaginario che ricorda certe atmosfere suggerite da Paolo Conte e che si adattano perfettamente alla scrittura visionaria di Galeano.

Intanto Cossu si interessa anche di musicoterapia, di colonne sonore e di altre circostanze legate alla musica. All’inizio del 2020 pubblica il suo nuovo album Coi delfini del cielo: nove canzoni originali suonate in compagnia di un gruppo di ottimi musicisti della scena sassarese: Marcello Peghin alle chitarre, Paolo Carta Mantiglia al clarinetto, Paolo Zuddas alle percussioni, Salvatore Maltana al contrabbasso, Gabriele Peghin al cajon e Roberto Polo alle percussioni. Musicisti dalla grande esperienza e di diversa estrazione che conoscono bene Cossu e i suoi desideri, sanno perfettamente cosa fare e garantiscono un substrato musicale complesso e multiforme: swing, jazz, richiami a sonorità country e al folk più evoluto. Coi delfini del cielo è un disco di canzoni semplici, autentiche, senza troppe sofisticazioni, dirette e sincere: Cossu ci presenta la sua visione del mondo senza nascondersi, mettendosi a nudo.

Emergono all’ascolto le diverse influenze e tanti ascolti che in qualche misura rimandano alla poetica di artisti come Gianmaria Testa, Bobo Rondelli, Fabrizio De André ma anche proposte più recenti come Dente, Brunori, Colapesce e forse tanti altri. Piace e colpisce la scelta di cantare in italiano, di esporsi direttamente senza la facile scorciatoia di un inglese ipotetico che spesso è solo vacua rappresentazione estetica e Cossu si prende tutti i rischi che questo comporta. Le sue canzoni parlano di vita vissuta, di sentimenti, di Sardegna, del difficile mestiere di vivere e lo fa con sincera partecipazione. Cosa che pensa anche Maurizio Blatto quando afferma che Gianfranco Cossu “parla della sua terra senza scadere nel luogo comune o nella rabbia fuori mirino”. Rimane da chiedersi perché ancora oggi abbiamo bisogno di canzoni d’autore, perché continuiamo a stupirci se un poeta riesce a mettere in musica le sue follie, ci abbandoniamo a melodie semplici e ci lasciamo trasportare da parole usate come ingredienti per una pietanza senza tempo. La risposta forse non esiste e questo è il bello della musica: il mistero di riuscire a commuoverci e a farci sognare, oggi come sempre. Una dolce terapia che ci aiuta a stare al mondo.

D’improvviso (…) qualcosa di storto ci parla da persona a persona, e questo ci interessa, come la grazia geniale dell’handicap o la pagina oscura de libro beneamato (…) ci parla della sua parzialità, e ne fa, come per caso, una gloria che ci commuove. [D. Gaita] ​
​Claudio Loi

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