Rapito nel 1928, ad appena quattro anni, fa ritorno a casa quando ne ha quarantatré. Una storia lontana nel tempo ma che arriva dalla Sardegna. È quella di Francesco Serra, noto Chiccheddu, che dalla nascita alla morte ha avuto tre nomi come se avesse vissuto tre vite. Non sapeva di essere sardo invece lo era eccome, ogliastrino di Talana. La sua odissea è raccontata in un opuscolo pubblicato dal Comune del paese per restituire alla memoria la storia di un uomo che “non si è mai arreso alle difficoltà”. Negli anni a più riprese le sue vicende sono state raccontate anche dai quotidiani sardi e dal ‘Messaggero Sardo’ periodico di informazione per i sardi nel mondo arrivando poi anche in teatro con uno spettacolo della compagnia Crogiuolo. Ma ancora oggi rimangono particolari misteriosi.
La vicenda. ‘Chiccheddu’ viene rapito mentre gioca a Talana forse da alcuni carbonai o, come racconta qualcuno, da una persona di cui si fidava e poi chissà come venduto. Sta di fatto che finisce in Nord Africa. Vive in Libia dove viene venduto a una famiglia araba che soggiorna nell’oasi di Cufra. Qua gli viene dato il nome di Annuf. Vive assieme a nuovi genitori, Alì e Uarda, con i loro due figli e l’anziana nonna Fatma. Più che da figlio viene trattato quasi da schiavo: ha il compito di accudire pecore e cammelli. Quando non obbedisce subisce punizioni corporali che segnano per sempre il suo corpo.
La doppia identità. Il colore diverso della pelle e altri particolari, col tempo insinuano nel giovane il dubbio di non appartenere a quella famiglia. Diventa certezza quando in punto di morte Fatma gli rivela parte della verità: è stato acquistato da commercianti di granaglie in servizio tra la Sardegna e il Nord Africa. Gli dice che è italiano e gli restituisce una medaglietta, che il bambino portava al collo quando arrivò in Libia, sulla quale è inciso un nome: Giuseppe Di Bello. Così sarebbe stato ‘ribattezzato’ prima di diventare Annuf. Il ragazzo scappa, viaggia nel deserto seguendo i tragitti delle carovane. Arriva in Egitto, allora in guerra, dove incontra un gruppo di soldati inglesi ai quali racconta la sua storia. Con loro prosegue in un viaggio di 1100 chilometri nel deserto. Arrivano a Tripoli. Qui assieme a un soldato inglese rimane l’unico superstite di un’esplosione avvenuta su un campo minato.
Il ritorno in Italia. Nonostante le difficoltà Giuseppe di Bello riesce a trasferirsi a Tripoli. Nella città libica grazie a un imprenditore siciliano ottiene una lettera di accompagnamento che gli permette di arrivare in Italia. Sono passati più di trent’anni, il 26 marzo 1961 arriva a Siracusa dove viene identificato quale clandestino. Per lui intercede il vescovo, dal Tribunale ottiene i documenti: “Giuseppe di Bello, nato chissà dove e chissà quando, in arrivo dalla Libia”. Nel 1962 sposa quella che diventerà la compagna della sua vita: Anna Barbagallo.
La svolta. Ma Giuseppe di Bello vuole conoscere le proprie origini. Racconta la sua storia a un giornalista di Famiglia Cristiana, che la pubblica. Per quattro anni non accade nulla, fino a quando il settimanale ‘Stop’ si occupa della vicenda. L’articolo viene letto a Talana dai parenti e da un fratello che viveva a Roma. I familiari si recano a Siracusa per incontrare Giuseppe di persona. Che poi il 25 settembre del 1967, dopo 39 anni, fa ritorno a casa. Si deve aspettare il 3 ottobre 1973 una sentenza della Corte d’Appello di Cagliari per restituirgli l’identità perduta: Francesco Serra, figlio di Anania e Maria Agostina Serra. Per tutti ‘Chiccheddu’. Francesco riparte per lavoro e si trasferisce a Cagliari. Ma dopo nove anni è costretto ad andarsene perché disoccupato. Torna in Sicilia, dove passerà il resto della sua vita. “Mi sento italiano – dirà – nato in Sardegna, figlio di sardi. Il legame l’ho scoperto tardi, ma esiste, anche se il mio accento è siciliano”.
Andrea Deidda