di Andrea Tramonte
«Voglio tornare a casa», disse Giovanni Pintori quando ormai sentiva che gli mancava poco da vivere. La casa a cui faceva riferimento, nelle parole affidate a Milano a uno dei figli, era Nuoro: la sua città d’origine, il luogo dove aveva trascorso gli anni fondamentali della giovinezza e il primissimo apprendistato nell’arte del disegno e nelle tecniche fotografiche. Era cresciuto nel quartiere Seuna, rione degli artigiani e dei contadini dove la famiglia Pintori aveva sempre vissuto. A soli diciotto anni decise di partire; e forse in quel momento non si rese perfettamente conto che quel viaggio in nave da Olbia verso “il continente” avrebbe cambiato radicalmente la sua vita e lo avrebbe tenuto lontano dall’Isola molto a lungo. Nell’arco di poco tempo divenne uno dei più grandi designer italiani del Novecento, creatore delle grafiche più iconiche di Olivetti e di tutto l’immaginario estetico dell’azienda di Ivrea, di un segno personale riconosciuto e apprezzato a livello internazionale, di lavori esposti al MoMa di New York e al Louvre di Parigi che alzarono lo standard della grafica pubblicitaria al livello dell’arte.
Quella del ritorno a casa fu una decisione per certi versi inaspettata. Il rapporto con la sua terra d’origine era fonte di conflitto interiore, un classico esempio di amore-odio con un’enfasi maggiore da porre sul secondo termine. A lungo sentì, e arrivò a esternare, un senso di forte estraneità verso la terra dove era nato. «Ma mio padre tornava spesso in Sardegna, senza darne comunicazioni ufficiali», racconta uno dei figli, l’architetto Paolo Pintori. «Conservo una enorme raccolta di fotografie scattate da mio padre nell’Isola. Foto di paesaggi, perlopiù, che dimostrano che nonostante tutto aveva conservato un interesse molto forte per la sua terra». Poi c’erano le ragioni più affettive e familiari: il designer rimase sempre legatissimo all’amata madre, Nina, morta a 104 anni, e andava spesso a trovarla. Era in contatto costante con la sorella perché la aiutava economicamente. Ogni volta che tornava ne approfittava per scattare foto nuove, che andavano ad arricchire la sua collezione. Non ci sono tracce scritte del perché le facesse. Forse il legame coi paesaggi della sua Isola era ancora molto forte, nonostante il distacco, la lontananza e la delusione. Una faccenda molto intima. «Quando disse di voler essere seppellito a Nuoro per noi fu una sorpresa: non aveva mai espresso quel desiderio», dice Paolo. «In quel momento fu evidente che il richiamo di casa era fortissimo». La stanchezza del lungo viaggio forse aveva fatto nascere in lui un desiderio umanissimo, quasi fanciullesco: quello di rannicchiarsi vicino alle persone amate, nell’abbraccio della terra dove aveva visto la luce. Questo succedeva nel 1999, quando l’artista venne a mancare. Aveva 87 anni.
Pintori nacque a Tresnuraghes nel 1912 e si trasferì a Nuoro sei anni dopo, quando la famiglia decise di fare ritorno nella città barbaricina. Fin da piccolo mostrò una passione enorme per il disegno, la lettura e la conoscenza in generale. Eppure corse il rischio di non portare a termine gli studi. Ormai affermato, il designer raccontò l’impatto spiazzante che ebbe per lui l’inizio della scuola e in particolare l’incontro con la lingua italiana, abituato com’era a parlare in limba all’interno della sua famiglia: «Varcare la soglia del vecchio convento fu come entrare in una terra straniera: era necessario imparare a esprimersi in una lingua nuova e difficile». Abbandonò gli studi e fece da apprendista a Maestro Chessa, falegname, considerato in quel periodo uno dei migliori artigiani della città. Le sue difficoltà derivavano anche da quelle della famiglia, angustiata dai problemi economici. Questo fece aumentare la sua fame di conoscenza, il suo desiderio di affermazione e di emancipazione. Un canonico, vista la voracità con cui il piccolo Giovanni divorava i libri che gli capitavano per le mani, gli consentì di accedere alla sua biblioteca personale. Quando poi aprì una nuova galleria a Nuoro, frutto della collaborazione tra il fotografo Piero Pirari e l’artista Giovanni Ciusa Romagna, ebbe l’occasione di esporsi a un ambiente stimolante e poté imparare le prime tecniche di disegno e di fotografia. La svolta arrivò poco dopo, nel 1930, grazie a una borsa di studio che gli consentì di frequentare il corso di grafica pubblicitaria presso l’Isia di Monza, scuola d’eccellenza dedicata alle arti applicate che allora era considerata una sorta di Bauhaus italiano.
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Nel piroscafo in cui si imbarcò per raggiungere la penisola incontrò un altro giovane sardo, Giovanni Fancello. Per entrambi era il primo distacco dall’Isola. «Io avevo 18 anni, lui 14, era un ragazzino, non era mai uscito da Dorgali e quella notte dormiva con la testa sulle mie ginocchia, proprio come un bambino». Pintori si iscrisse al corso di grafica pubblicitaria, il secondo a quello di ceramica. Un anno dopo arrivò da Orani anche Costantino Nivola: anche lui si dedicò alla grafica pubblicitaria dopo un primo interesse verso la pittura. C’è un luogo comune che vuole che i sardi tendano a riconoscersi e frequentarsi quando si trovano lontani dall’Isola. Anche per Pintori, curiosamente, fu così. Venne ribattezzato il gruppo dei “tre sardi”: tre figure straordinariamente talentuose, probabilmente le più promettenti all’isia in quegli anni, unite da un legame di amicizia quasi fraterno. «La comune miseria, più la “sardità”, ha legato il rapporto tra noi tre (allora i soli studenti d’arte di tutta l’Isola), in modo speciale», ha scritto Nivola. I tre conclusero i corsi nel 1936 e si trasferirono a Milano. L’anno prima conobbero Ruth Guggenheim, studentessa tedesca di religione ebraica, che nel 1938 divenne la moglie di Titino Nivola (mentre la sorella Renata fu la fidanzata di Fancello). Nel ’36 Ruth chiese al padre di raccomandare il futuro marito per un posto in Olivetti, e Nivola a sua volta coinvolse Pintori, che fu assunto nell’azienda di Ivrea. Il gruppo si sciolse per ragioni tragiche: Nivola fu costretto a trasferirsi a New York per via delle persecuzioni naziste nei confronti della moglie; Fancello morì nel corso della Seconda guerra mondiale sul fronte albanese, a soli 35 anni.
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Il lavoro di Pintori alla Olivetti divenne fondamentale nel giro di poco tempo. Il suo approccio artistico e comunicativo – delineato a stretto contatto col patron Adriano, con cui la sintonia era totale – andò a definire “lo stile Olivetti”: non solo sul piano estetico ma anche nell’idea stessa di messaggio pubblicitario. «Il prodotto non deve essere rappresentato come un dogma da imporre alle persone, ma come un elemento da elaborare in un’immagine che possa essere interpretata, apprezzata e accettata dal fruitore, inteso come colui che osserva la pubblicità e non obbligatoriamente come potenziale cliente», scrive il designer Massimiliano Musina nel suo libro “Giovanni Pintori, la severa tensione tra estro e riserbo” (Lupetti). Ecco il perché della bellezza straordinaria delle immagini, segno di una fiducia enorme nella capacità delle persone di accoglierle e nella volontà di educare e innalzare il gusto dei destinatari. Pintori si occupò si manifesti, poster, annunci, dépliant, brochure e manuali d’uso, allestimenti degli “store” perfettamente in linea con l’immagine coordinata dell’azienda che il designer aveva contribuito a codificare.
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Lavorò in Olivetti trent’anni producendo una mole enorme di immagini iconiche, alcune delle grafiche più significative e influenti del Novecento. In particolare sono i lavori degli anni Cinquanta a garantirgli la consacrazione internazionale. «Esplode il concetto di sintesi», scrive Musina nell’analisi delle opere del periodo, «che si rivela in composizioni dai fondi esclusivamente bianchi dove trovano spazio pochi e ricercati elementi. Questi si combinano in un visual semplice e manine, dalla bellezza e potenza comunicativa impareggiabili. Spesso l’immagine della macchina per scrivere è omessa, mettendo così in rilievo i soggetti rappresentati, generalmente immagini stilizzate dai tratti piatti e dai colori brillanti che richiamano un oggetto o un gesto». Se la sintesi fulminante è forse la dote più immediatamente riconoscibile di Pintori, a una analisi ulteriore emergono altre caratteristiche del suo segno. La stilizzazione, grazie alla quale il designer non riproduce mai un soggetto ma lo illustra in modo chiaro e semplificato; il colore, con l’uso preponderante di giallo, rosso, blu, verde e nero, vero e proprio marchio di fabbrica del suo lavoro; la metafora, caratteristica concettuale in grado di veicolare il messaggio in modo semplice e comunicativo. Nel corso degli anni andò a definire un suo “vocabolario grafico” (così lo chiamava) con temi e immagini ricorrenti: dalla stilizzazione grafica degli elementi ingranaggi e delle componenti delle macchine da scrivere ai simboli della “leggerezza del tocco” a indicare la facilità di utilizzo della tastiera, fino agli elementi geometrici che simulano il movimento e quindi la velocità di scrittura. Pintori, a questo proposito, mette a confronto la macchina da scrivere coi sistemi di scrittura tradizionali, in modo da marcare la differenza e stabilire il valore del progresso. «Questo elemento crea un rapporto diretto con le vecchie abitudini del pubblico invogliandolo ad accettare con più fiducia il messaggio pubblicitario», scrive Musina.
La prima mostra su Pintori in Sardegna risale al 1997, due anni prima della morte. Allora il designer era un perfetto sconosciuto nell’Isola. La verità è che ci fu un precedente che lo scottò irrimediabilmente: una esposizione collettiva nel 1934 insieme agli amici Nivola e Fancello al Caffè Deffenu di Nuoro, che fu accolta con indifferenza dalla comunità. Ci vollero 63 anni prima che il suo lavoro potesse tornare nella sua città giustamente celebrato. Una seconda mostra è stata organizzata al Man nel 2003 – allora la direttrice era Cristiana Collu – in occasione dell’arrivo dagli eredi di 150 opere circa in comodato d’uso, che ora sono parte della collezione permanente del museo barbaricino. Oggi il Man – insieme alla sua direttrice, Chiara Gatti – ha curato una mostra che è in programma fino al 16 febbraio 2025 al m.a.x. di Chiasso, in Svizzera, e che poi arriverà nel museo barbaricino. Una mostra «se non definitiva di sicuro completa», dice Gatti. «Il rapporto di gemellaggio con il museo svizzero è stato fondamentale – racconta -. All’origine del ragionamento c’era l’idea di valorizzare un grande artista sardo, ma diciamo pure un grande artista internazionale, uno dei più grandi graphic designer di sempre, però presentandolo in una cornice nuova. Ovvero in un museo riconosciuto a livello europeo proprio per la grafica d’autore». L’esposizione, curata insieme a Nicoletta Osanna Cavadini, ripercorre l’intero iter creativo e professionale di Pintori con oltre trecento pezzi fra schizzi, bozzetti, disegni acquerellati, manifesti, brochure, collage, stamponi, fotografie e dipinti su tela, materiale esposto con un criterio tematico-cronologico. «C’è il materiale di proprietà del Man ma anche numerosi lavori inediti – spiega la curatrice – grazie all’archivio degli eredi, dell’Olivetti e dell’Asia. Un ripercorrere a 360 gradi tutto il suo lavoro. Per esempio gli studi sul nudo portati avanti da ragazzo a Monza, fino al celeberrimo stile Olivetti, di cui è stato teorico, abbracciato da un imprenditore lungimirante e visionario che aveva capito bene il suo talento in erba e lo aveva portato con sé al dipartimento pubblicitario della sua azienda».
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Sul piano personale, il figlio Paolo ricorda il suo carattere non facilissimo. «Era molto concentrato sul suo lavoro. Aveva pochi amici. Era un uomo chiuso, di poche parole, riservato: in questo molto sardo, forse. Aveva difficoltà a esprimere a parole le proprie sensazioni anche se poi nei fatti dimostrava grande generosità. Nivola scrisse che aveva un caratteraccio e che sul lavoro era un despota. In realtà era solo rigoroso: poi fuori dal lavoro i collaboratori venivano sempre al mare ospiti da noi». C’è un ricordo che il figlio ama condividere del padre e del rapporto con la Sardegna. «Ci parlava spesso della chiesa della Santa Maria delle Grazie di Nuoro. Era molto legato a quel luogo, vicino alla vecchia casa dove crebbe, che abbiamo ancora: casa di mia nonna. C’era la piazzetta dove giocava insieme agli altri bambini. Era molto legato a quegli spazi tanto che li ha dipinti. Non ci diceva molte cose, in generale, ma di quella chiesetta, curiosamente, ci parlò tante volte».