Giampaolo Piga, sua altezza il tenore. “Avevo un sogno: cantare ogni giorno”

Giampaolo Piga, classe ’62, penultimo di dieci figli di una modesta famiglia, fin da ragazzo si è rimboccato le maniche per cercare di trovare quanto prima la sua strada e aiutare a tirare avanti la baracca. Ai suoi tempi, uno dei modi per poter far studiare i figli era quello di mandarli in collegio e così è stato anche per lui. Come tutti i ragazzi della sua età, Giampaolo amava i grandi classici della musica italiana: Baglioni, Battisti, Morandi, finché un giorno alla radio trasmettono una registrazione della Bohème con il grande tenore Giuseppe di Stefano e lui lì, casualmente in ascolto, ne rimase folgorato. “Da allora decisi che l’unica aspirazione della mia vita sarebbe stata quella di cantare come lui – dice -: impresa a dir poco impossibile per uno che era stato cacciato dal coro della parrocchia perché stonato”.

Terminate le scuole medie, per inseguire il suo sogno lascia Cagliari con una valigia, un mangianastri e tanta voglia di imparare. Giampaolo va a studiare fuori, prima a Firenze dai Domenicani e poi a Siena nell’Istituto Pontificio. “Da studente non modello – sostiene lui -, mi sono distinto presto nel campo delle arti per una discreta capacità nel disegno e nella recitazione, qualità questa che in seguito mi è servita non poco per affrontare specifici ruoli sia nelle opere che nelle operette. Fui notato per la prima volta nell’Istituto di Siena quando, durante l’intervallo di ricreazione per gioco, una insegnate mi sentì improvvisare la romanza della Bohème di Puccini “Che gelida manina”; presomi allora in disparte, volle sapere con chi avessi studiato”. Insomma, quella professoressa prese tanto a cuore il giovane talento che si offrì di dargli lezioni gratuite a casa sua in Piazza del Campo. “Gentile e cortese ma altrettanto severissima, mi dava da studiare tutte le opere per intero tanto che a 16 anni, imparavo presto, avevo più opere in repertorio che capelli in testa”.

Giampaolo Piga in scena

Una prima opportunità di poter fare finalmente alcune lezioni di canto per l’allora giovane tenore era arrivata, ma ogni volta che doveva chiedere un permesso di uscita era uno scoglio da superare: il rettore glielo negava puntualmente sostenendo che la musica lo distraesse dallo studio delle altre materie ritenute fondamentali. Giampaolo si inventava allora delle banali giustificazioni per poter andare in piazza del Campo. La faceva sempre franca, ma una volta la bugia gli venne clamorosamente scoperta. “Venni punito severamente – racconta -: non mi consentirono più le uscite, niente partita di calcio settimanale, niente ricreazione dopo cena e niente tv. Ma per fortuna ciò non durò per lungo tempo: l’arrivo a Siena del cardinale Siri, vicario di Genova, mi diede l’occasione di riscattarmi. In cattedrale, durante una importante cerimonia con la chiesa gremita all’inverosimile, l’organista aveva intonato l‘Ave Maria di Schubert e io, nel pieno della mia incoscienza, senza prove e senza alcun permesso, a voce spiegata ho attaccato col canto da tenore; al termine, cosa insolita in chiesa, ho sentito un boato di applausi tanto che non capivo che cosa stesse succedendo. Mi si avvicinò il rettore, pensavo per punirmi per la bravata, e invece, piangendo come un bambino mi disse: ‘Bravo, ti manderò’ alla Chigiana’”.

Per Giampaolo sembrava arrivato il trampolino di lancio, ma quell’Accademia musicale annunciata e tanto attesa, gli viene negata dalla sua stessa famiglia: “Ho trovato a casa il mulino dei guai che girava per me. Mia madre voleva a tutti costi che facessi il meccanico dentista e io non ne volevo sentire e per tutta risposta mi rimproverò di cercarmi un lavoro” Così, senza farselo dire due volte, il giovane tenore uscì di casa quello stesso pomeriggio stesso in cerca di un lavoro. Con umiltà e decisione bussò per le botteghe: falegnamerie, farmacie, officine meccaniche, fabbri, ma nulla da fare. Quando in serata cominciò a sentire la stanchezza del tramonto ormai vicino, anche un po’ scoraggiato, si avviò verso casa. Ma in via San Bartolomeo venne attratto dalla grande folla che si apprestava a entrare al circo. “Un piatto ghiotto per me quel mondo – continua a raccontare -: chiesi in biglietteria a un signore vestito tutto di rosso, con le mostrine dorate, se avessero un posto. Spiegai che io sapevo fare tutto: ballare, cantare, recitare, far ridere la gente. Il signore in rosso mi trattò come un figlio e sorridendo mi rispose che lui non aveva possibilità di prendere nessuno perché lo spettacolo era al completo. Mi fece però notare la mia determinazione, aveva capito che per lavorare sarei stato disposto a tutto, anche a entrare in gabbia con i leoni, dove lui era il domatore. Per questo si disse sicuro che presto avrei trovato quello che cercavo, visto che dimostravo coraggio da vendere. Non ho mai dimenticato quelle parole che mi giunsero proprio in quel momento difficile in cui ho sentito maggiormente il bisogno di essere incoraggiato, quasi fosse una benedizione la sua. Il signore in rosso era Nando Orfei in persona”.

Da lì ad un’ora, come fosse stata veramente una benedizione, Giampaolo aveva in tasca il suo primo contratto di lavoro come tenore: “Nella strada del rientro, in via Azuni a Cagliari, proveniente da un locale con la scritta “Teatro musica”, si udivano note di un pianoforte. Entrai c e chiesi lavoro, ancora una volta in quella lunga giornata. Mi risposero che erano al completo, che andavano in scena con due atti unici di Pirandello e non avevano bisogno di nessuno. Deluso ma non rassegnato, chiesi al pianista se conosceva ‘O Sole Mio’. Ed ecco che ottenni la mia occasione: avevano bisogno di un cantante. Avevo 17 anni e quella fu la mia prima volta da tenore, per una compagnia di teatro, un sogno”.

Ma il sogno più grande della sua vita Giampaolo lo realizza con l’incontro del suo idolo ispiratore, il grande Giuseppe di Stefano. “Dopo un concerto per Martini&Rossi al conservatorio di Cagliari – ricorda – Di Stefano rilasciava autografi al pubblico e anche io attendevo il mio turno tra la calca scalmanata (nella foto a sinistra). Arrivato d’avanti a lu, armato di coraggio e della incoscienza dei miei 17 anni, gli dissi: ‘Sai, Pippo, che tu sei stato il più grande Arturo Talbot dei Puritani?’. Lui mi guardò incuriosito, ma prima che potesse aprire bocca, io attaccai a cantare a gola spiegata. Non dimenticherò mai le sue parole che per pudore conserverò sempre con me”. All’indomani di quella serata, Giampaolo venne a conoscenza che il direttore del conservatorio, il maestro Nino Bonavolontà, era alla ricerca di chi fosse il ragazzo che aveva cantato con Di Stefano. “Mi sono ritrovato iscritto in conservatorio col massimo dei voti. Devo ringraziare il pianista Andrea Mudu che senza mai chiedermi una lira mi ha accompagnato nello studio di numerosissime opere e da studente ebbi così modo di lavorare subito nelle parti secondarie ed in ruoli primari fino al debutto a Tokyo, nella ‘Cambiale di matrimonio’ di Gioachino Rossini”.

Da allora diverse furono le opportunità di carriera che si presentarono al tenace tenore: come quella datagli dal registra-attore Giuseppe Curreli che lo ha portato in scena da protagonista per ben nove titoli di operetta, ma anche l’incontro con la cantante lirica Jenny Gucci a Firenze, dove continuò ogni tanto a cantare per concerti di beneficenza. Lei lo invitò a Londra e col noto compagno Paolo Gucci gli proposero un debutto al New York city opera per una loro inedita composizione. Giampaolo, però, amava Cagliari, la sua terra calda di Sardegna, e da tempo considera la sua seconda famiglia il coro del Lirico, dove da più di 30 anni canta da tenore. “Volevo cantare e canto tutti i giorni sempre sotto la guida di maestri di coro preparati e capaci di fondere tante voci diverse per ottenere un unico meraviglioso suono – conclude -. Metodica attualmente seguita con scrupolo ed eccellenza dal maestro Donato Sivo. Nella storia della mia vita., che sembra quasi una romanza, sempre mi porterò dentro nel cuore la figura di Giuseppe di Stefano, che mi fece scoprire con la sua voce la passione per il canto e mai potrò scordare il coinvolgente incoraggiamento di Nando Orfei in un momento dove mi sembrava di crollare. ‘Ce la farai’, mi disse. Grazie a chi ha creduto in me”.

Elisabetta Caredda

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