Gavoi, Rachel Cusk all’Isola delle storie: “Ecco come ho rinnovato il romanzo”

“Nei miei romanzi cerco di rappresentare l’idea che tutti hanno diritto ad esprimersi attraverso la parola: ogni persona ha una sua verità e la necessità di raccontare la propria esperienza, la propria storia”, dice Rachel Cusk, scrittrice canadese di stanza a Londra ospite della sedicesima edizione del festival letterario ‘L’Isola delle storie’, in programma fino a stanotte a Gavoi. L’autrice è considerata una delle voci più importanti della narrativa contemporanea, in particolare per il modo in cui è riuscita a scardinare la forma del romanzo, a creare qualcosa che – a conti fatti – prima non c’era. E questo c’entra anche con il modo in cui l’autrice, la voce narrante, scompare, lasciando che a parlare siano principalmente le persone con cui entra in contatto nel corso della narrazione, con le loro storie che premono per essere raccontate e condivise. “Rachel Cusk è uno specchio, riflette le persone che incontra”, ha detto efficacemente la scrittrice e critica Chiara Valerio durante l’introduzione dell’incontro. “Un racconto di persone che raccontano altre persone. E attraverso le loro riflessioni e l’ascolto di quello che hanno da dire capiamo chi è il narratore. Tutto ciò che rimane ai bordi dello specchio è Rachel Cusk”. In questo senso l’autrice canadese considera quasi una forma di pulizia morale quella di defilarsi, di sparire. Di sottrarre, di far sparire “l’ego dell’autore nel nostro lavoro”. Il modo di raccontare di Rachel è avvolgente, ipnotico: ti fa entrare con familiarità nelle vite degli altri in modo sobrio, delicato. “Chiusa l’ultima pagina, hai la sensazione che qualcuno ti abbia rivelato la verità raccontando tutto e niente al tempo stesso”, ha scritto Jeffrey Eugenides. Verità sui rapporti, sul matrimonio, sull’identità, sul tempo. E non è poco.

Quello con la scrittrice canadese è stato l’incontro clou del venerdì dell’’Isola delle storie’, di fronte a un migliaio di persone nello spazio di Sant’Antrioco, prima del tramonto. L’appuntamento è stato organizzato in collaborazione con il festival ‘Florinas in giallo’: “Un rapporto che nasce dall’idea che in Sardegna se si collabora si sta meglio”, ha detto Marcello Fois, scrittore e direttore artistico dell’’Isola delle storie’. “In questa regione dove tutti si sentono in concorrenza, se ci sentissimo in concomitanza forse saremmo tutti più belli e più forti”. Il confronto con Rachel Cusk è stato particolarmente denso, quasi tutto incentrato – quasi inevitabilmente – sulla sua idea di letteratura e sulla sua capacità di rinnovare profondamente il romanzo, in particolare con la trilogia che l’ha resa celebre (in Italia sono usciti i primi due titoli, ‘Resoconto‘ e ‘Transiti‘, entrambi per Einaudi Stile Libero). “Ero un po’ stanca della forma del romanzo e in qualche modo mi è sembrato che la forma tradizionale ci avesse infettati un po’ tutti”, ha detto. “Ho provato a cambiare anche rispetto al ruolo del lettore, cercando di dargli una posizione che gli permettesse di avere una visione più ampia. Non penso sia necessario idolatrare certi elementi della narrazione come il “punto di vista”. L’idea che il lettore debba perdersi nel pensiero di un altro ha qualcosa di pornografico. Cerco di evitare di far perdere il lettore all’interno di una scena: e cerco di trasmettere più voci che a loro volta sono raccontate da altre voci”. La libertà di scegliere la forma per Cusk è cruciale: “È quello che ci permette di mantenerci integri moralmente, sia come osservatori che come osservati”.

Tra gli incontri della giornata – dopo l’inaugurazione con Teresa Ciabatti dal balcone a S’Antana ‘e susu, l’incontro con Michela Murgia, quello tra il giornalista Lirio Abbate e Marco Tullio Giordana e il reading di Maurizio De Giovanni – c’è stato quello a Mesu bidda intitolato ‘Altre prospettive’, durante il quale Ignazio Caruso ha intervistato la poetessa rumena Ofelia Prodan e lo scrittore Stefano Sgambati. Quest’ultimo è autore de ‘La bambina ovunque’ (Mondadori), una autofiction in cui l’autore racconta l’esperienza della paternità ben lontano dallo stereotipo della genitorialità felice. Anzi: “Non è un libro tenero, da questo punto di vista”, ha detto Sgambati. “Non c’è niente di più noioso di uno scrittore che parla del suo essere genitore. Per vincere la noia si risponde con una forma più audace, con una scrittura più ambiziosa. Evitando la retorica in tutto il libro, nonostante l’argomento in un certo senso la richiami”. Il romanzo si sviluppa in tre parti. Una dedicata alla gravidanza e “al tempo”, durante la quale “Comincio a sbattere nel tavolo autoptico il mio corpo per capire qual è la rotella che non funziona e mi chiedo quando sarò felice di diventare padre”, confessa. “Ho amici che al terzo mese di gravidanza stavano già dicendo: faccio altri quattro o cinque figli. Per me non è stato così: non sono un padre naturale. Ho voluto raccontare questo scollamento, questa sensazione, più interessante rispetto al tema della genitorialità felice. Anche se poi il momento è arrivato e ora sono il classico padre rincretinito che mostra a tutti le foto della sua bambina, senza dignità, imbarazzante – scherza l’autore -. Felice di essere padre”. Il romanzo racconta anche l’esperienza della fecondazione in vitro. “Un aspetto autobiografico che ho cercato di rendere universale, provando a trasmettere l’anima della cosa. Nell’autoficition non si racconta semplicemente il fatto, ma il suo significato profondo. È la vibrazione che produce la letteratura – conclude – quella specie di ultrasuono che fa muovere il vetro”.

Andrea Tramonte

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