di Andrea Tramonte
Non è un caso che il nome della band richiami un disastro di proporzioni enormi. La distruzione di un intero paese dell’Ogliastra in seguito a un’alluvione – siamo nel 1951 – causata da piogge incessanti che hanno battuto sulle case e sulle strade del borgo per quattro giorni interi, causando frane e smottamenti e finendo per lasciare di Gairo solo rovine, un paese fantasma che è ancora oggi un monito sui disastri ambientali in Sardegna. La band cagliaritana ha scelto di richiamarsi a quell’episodio e ha un senso: l’idea di suono — specie ai tempi del primo album – è cupa, carica di tensione. Ondeggia tra dilatazioni ed esplosioni, momenti melodici e affondi ruvidi, intrecci di chitarra avvolgenti e ripetizioni ipnotiche. Ampi spazi che poi improvvisamente si chiudono a causa di muri di chitarra impenetrabili. Il nuovo disco ammorbidisce leggermente il suono ma senza rinunciare a un approccio post metal – con la sua impronta massiccia – che sconfina a volte col post rock e lo shoegaze. Si intitola Her ed esce per la Drown Within Records in collaborazione con l’associazione Le Officine e Acme. Verrà presentato sabato al Fabrik a Cagliari con la band al completo: Marco Porcu, Roberto Sechi, Luca Cabboi, Davide Ragazzo, Aurora Atzeni e Donato Cherchi, e l’aggiunta di Manuel Carreras che si occuperà del light design sul palco. “Una evoluzione cercata prima di tutto per non fare una copia del disco precedente – spiega Porcu – ma anche perché volevamo un disco che avesse più ricchezza, maggiore sviluppo negli arrangiamenti. Abbiamo usato anche banjo, chitarra acustica, sintetizzatori, che sono serviti per creare una forma canzone diversa. Un brano come Koobi fora ad esempio ha atmosfere western e siamo contenti di questa varietà”.
“L’idea dei Gairo nasce da un progetto solista di Marco, al quale poi mi sono aggiunto io – racconta Cabboi, bassista e autore dei testi -. Poi è arrivato Roberto alla batteria e dopo una serie di cambi di line-up siamo giunti alla formazione attuale”. Il nuovo disco è stato scritto e arrangiato interamente dai tre ma dato che man mano che prendeva forma il nuovo lavoro la tendenza era a complicare le cose sempre di più, il nucleo originale si è arricchito di nuovi elementi in gradi di dare corpo a un’idea di suono particolarmente strutturata. Da un anno e mezzo esiste uno studio-sala prove a Cagliari chiamato Acme che è diventato una specie di collettivo, pieno di collaborazioni e intrecci tra band e musicisti di varia origine. Così sono entrati Davide Ragazzo e Aurora Atzeni, con l’ulteriore ingresso di Donato Cherchi alla voce, la novità più sostanziale del nuovo album. “Volevamo raccontare una storia e la musica non ci bastava più – spiega Cabboi – e avere una voce come quella di Donato ci ha dato un sacco di possibilità. Anche un po’ parlata: un’esigenza stilistica ma anche una cosa che è avvenuta naturalmente”.
I lavori sul nuovo disco nascono appena prima del lockdown di due anni fa. “Questa cosa anziché bloccarci ci ha dato una spinta in più – racconta Cabboi – perché avevamo più tempo per lavorare ai pezzi, arrangiarli meglio e in generale vivere la costruzione dell’album in modo più rilassato. Il mix lo abbiamo fatto insieme a Fabio Demontis via Zoom e alla fine siamo riusciti a chiudere Her anche se eravamo ognuno a casa propria”. Il concept del disco è legato al ritrovamento negli anni Settanta di uno scheletro in perfette condizioni in Kenya, a cui – le analisi effettuate sui resti – avevano diagnosticato una malattia che le aveva impedito di camminare negli ultimi mesi della sua vita. “Una donna che qualcuno ha aiutato a sopravvivere nelle difficoltà dell’ultimo periodo della sua vita”, spiega Cabboi. A livello visivo questo tema è stato reso da una copertina realizzata dall’artista Veronica Frau/Kismet Hubble con la modella Blood Valkyrie. “Una figura primordiale, quasi una dea madre – spiega Sechi -. Richiama l’abbondanza delle figure femminili arcaiche sarde e ci piaceva avere un legame con l’Isola a livello visivo, anche se sottile. Poi ognuno può leggere quello che preferisce, non diamo direttive precise con una cosa troppo letterale”.
I testi sono stati scritti da Cabboi e seguono in parte lo sviluppo del concept. “La canzone che dà il titolo all’album ad esempio – spiega – cerca di immedesimarsi con la persona che può aver aiutato la persona ormai deforme negli ultimi mesi di vita. Racconta l’istinto materno, il prendersi cura di una persona. Un brano come Summer of 94 invece si basa sui miei ricordi nel passaggio da bambino ad adolescente, una vacanza a Capo Ferrato, il rapporto con la musica e la famiglia”. Di Like an elephant in a sandstorm è stato tratto anche un videoclip che si ispira alle tematiche del testo, alle difficoltà di una generazione spaesata che prova ad andare avanti nelle incertezze e nelle difficoltà. “Lo ha realizzato Nicola Olla – racconta Sechi – e riflette un periodo della vita di Luca in cui chiunque si può ritrovare: una persona che perde la bussola e non vede bene quello che verrà dopo, ma va avanti perché non ha alternative. L’elefante che mette una zampa davanti all’altra e cammina nonostante la tempesta di sabbia, che gli rende difficoltoso il cammino e non gli consente di andare avanti”. Il primo disco metteva in suono le cinque giornate che hanno devastato Gairo nel 1951 e in generale di “abbandono, natura, dell’uomo”, spiega Porcu. “Siamo rimasti in fondo ancorati a questi temi, declinati in modo diverso: tematiche forti con uno stile altrettanto forte che aiuta a far emergere ancora meglio certi argomenti”. Sul piano compositivo il modus operandi della band si sta evolvendo lentamente. Dagli esordi con una impronta fortissima di Porcu ai lavori del secondo disco, dove il chitarrista portava delle bozze che poi venivano discusse con gli altri, fino a raggiungere un risultato che soddisfacesse tutti. “Nella band è bello poter iniziare un discorso e poi condividerlo tutti insieme – spega -. Mi mette a mio agio iniziare un brano. Ma ora stiamo scrivendo tutti insieme e i brani del prossimo disco nasceranno così. Un lavoro più corale, collettivo. Voglio godere dell’esperienza che hanno tutti i musicisti che fanno parte dei Gairo”.
La band fa parte di una sorta di collettivo nato a Cagliari negli ultimi anni, una sala prove che è diventato un luogo dove succedono cose: collaborazioni, scambi e nuovi progetti, in un clima di fermento e confronto che sta dando pian piano i suoi frutti. “Abbiamo due sale prove e una quindicina di band – racconta Sechi – e abbiamo più o meno la stessa visione sulle cose, con uno scambio culturale a ogni livello, dalla condivisione degli strumenti alle competenze. Tra i progetti portiamo avanti improvvisazioni drone che poi stampiamo su cassetta e un progetto pilota per una compilation Acme, con la base dei Dharma Station e una serie di featuring con le band dello studio”.