Festival delle Storie, Benni dialoga sui suoi “Cari mostri” e i maestri: “Il mio, è Luigi Pintor”

Che Stefano Benni fosse un habitué della Sardegna i lettori sardi lo sapevano. E al prologo del Festival delle Storie, lo hanno apprezzato tutte le persone accorse a Gavoi, in piazza Sant’Antriocu. Un dialogo con l’autore insieme al patron Marcello Fois, entusiasta per la risposta del pubblico. Anche quest’anno ci si prepara a raccogliere visitatori e nomi importanti della letteratura mondiale e nazionale. Una piazza piena, un pubblico attento, silenzioso e partecipe, quello che ha assistito al faccia a faccia tra Benni e Fois, partito subito dopo la performance musicale di Pierpaolo Vacca all’organetto con le letture di Gisella Vacca, tratte da ‘Ballate’. E l’autore, ligio al suo stile, non si è sottratto  alle domande.

L’occasione dell’incontro era anche la presentazione del nuovo libro, ‘Cari mostri’, una raccolta di racconti horror, ironici, satirici e grotteschi. Ma prima di parlarne, Benni ha sentito il dovere di sdebitarsi con il suo amico pescatore, Gianni Usai, ex-operaio della Fiat che molti anni fa gli fece conoscere la Sardegna. Il secondo saluto l’ha riservato alla politica locale – e su suggerimento di Usai – al gruppo Comunidade.

“Ma chi sono i mostri di Benni?”, gli chiede Marcello Fois. “Innanzitutto voglio esercitare il diritto di scegliere la mia paura – è la risposta -. Per anni ci hanno infatti detto di che cosa dovevamo avere paura. ‘Mostro’ vuol dire ‘prodigio’ e il mostro posso essere io, un altro, perfino chi legge. Tutti lo possiamo essere. In fondo c’è una ferocia primordiale dentro di noi, ci sono vendette che si possono fare. Parlare con i mostri, però, mi aiuta a conoscerli, a ridimensionarli, a provare a diventarci amico. Vedere e scoprire se sono invincibili o meno. Alcuni mostri possono aiutarti, altre volte ti uccidono, perché son più forti loro”.

“Quale è la tua più grande paura?”, domanda Fois. “La mia più grande paura è che succeda qualcosa alle persone a cui voglio bene. Poiché non si ha il potere di agire in quella circostanza. Ma un’altra paura è quella di diventare un vecchio che invecchia male. Ci sono vecchi che invecchiano bene, e vecchi che iniziano ad odiare il mondo. Io spero di non essere tra quelli”.

“Ho sempre avuto un’immaginazione che mi porta verso l’inferno o verso il paradiso – continua Benni -. Le due cose viaggiano insieme per me, il grottesco e il pauroso. La vicinanza tra orrore e risata. C’è poi la gioia degli ‘scampati’. Se pensiamo, infatti, ad un pericolo passato andato a buon fine, ne parliamo necessariamente in modo comico. Credo che le due cose vadano insieme. Molti racconti per bambini, per esempio, come Pinocchio, che continuo a leggere, raccolgono tutte le maggiori paure dei bambini. Nella prima versione, Collodi faceva addirittura morire Pinocchio. Poi lo cambiò su pressione dei giovani lettori”.

Legge ancora un racconto del libro, Povero Nos, una lettura che in chiave ironica parla delle tasse in periodo di crisi, e la conversazione si apre al pubblico. Qualcuno chiede se esista una specificità di crisi sarda rispetto alla crisi globale. “Credo che la crisi sia una – risponde Benni -. Non saprei dire se la Sardegna ricopre una sua specificità nella crisi che è in atto. So che l’Europa è in crisi. So però che tra un sardo di 50 anni fa ed uno di oggi ci sono almeno 15 generazioni. Che tra padri e figli spesso corre un secolo. Io parlo di crisi culturale, e vedo che qui, però, la crisi produce cultura. La musica che abbiamo sentito oggi è capace di aprirsi, dialogare, non innalzare steccati pur mantenendo tutti gli stilemi tradizionali. Non dobbiamo perdere una cultura e sostituirla con un’altra. Non dovete, voi sardi, perdere le vostre cinquelingue. Bisogna andare verso il nuovo senza perdere ciò che ci appartiene, ciò che siamo. La cultura italiana, in fondo, è bella perché è meticcia: perché è bastarda”.

Arriva l’inevitabile domanda sul modo di scrivere: “Ogni libro è una storia diversa. E la scrittura non viene sempre pianificata. Ho buttato due libri che mi tormentavano nel fuoco, che sapevo mi avrebbero portato su una strada sbagliata. Scrivere è una bella fatica. Un piacere e un dolore insieme. Per me è un bellissimo tormento. A volte scrivo la stessa pagina 50 volte. Fino a quando altri mi dicono: basta! Mi intossico, spesso, e al posto di migliorare, rovino tutto. Ma non ho il tormento della pagina bianca. Credo di essere abbastanza prolifico, ho scritto 22 libri. Poi ho delle soste puntellate dalle telefonate degli editori, c’è la vanità del lettore, la malinconia dello scrittore, a volte sopravvalutato, a volte sottovalutato. Non scindo mai lo scrivere dal leggere. So per certo di avere quindicimila libri da leggere, ma non so se quello appena scritto possa essere il mio ultimo libro. In fondo scrivere è un regalo restituito alla lettura. Credo che scrivere sia ‘arte’ ed ‘artificio’, un atto sincero che a volte ha bisogno di alcuni ‘trucchi’ geniali. Il punto vero è che neppure le parole hanno una categoria. Quindi non spegniamo le parole, lasciamole brillare”.

L’ultima domanda è sul ruolo degli intellettuali: “Credo che in fondo abbiano fatto la loro parte: insegnanti, giornalisti, scrittori, comunicatori. Credo che abbiano sviluppato la capacità critica degli italiani. Penso che gli intellettuali debbano dare l’esempio. Perché per il resto hanno parlato tanto. Il mio maestro viene dalla terra sarda, è Luigi Pintor. Per me è un esempio. Perché mi ha insegnato a fare le cose: a capire che, in fondo, ogni generalizzazione, ogni categoria è pericolosa. Mentre al contrario ogni situazione è diversa, ogni individuo è diverso”.

Davide Fara

 

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