Eleonora, la “ragazza del rame” custode smart della gloria di Isili

Secondo appuntamento con la rubrica curata da Antonio Paolini Sardinia excellenceStorie, persone che rendono unica l’Isola

L’epopea della famiglia Pitzalis nel paese dei grandi artigiani

Dev’esserci, o esserci stato, qualcosa di speciale nell’acqua. O magari l’influsso un po’ magico – per chi ci crede – del non lontano nuraghe di Barumini, uno dei più celebri del glorioso catalogo isolano, o dei 48 in totale censiti sul territorio locale insieme alle tante neolitiche domus de janas. O magari, più terra terra, la posizione pressoché baricentrica del paese tra le città capoluogo e i relativi mercati. Fatto sta che a Isili, oggi 2500 abitanti all’ingrosso, uno più o venti in meno secondo circostanze, ma 50 mila e passa e relativo titolo di provincia assegnatole nei primi decenni dell’Ottocento, avere le mani d’oro pare non fosse l’eccezione, ma la regola. È così, e per questo, che Isili si è accreditata nel tempo come piccola capitale delle manifatture artigiane, legate anzitutto alla lavorazione del rame (ce n’erano miniere, come si sa, in Sardegna, a partire dalla Funtana di Gadoni) e alla tessitura di stoffe e tappeti.

La cultura del rame (degli oggetti di primo impiego certo, ma poi ancora della battitura fine, della lavorazione elegante quasi come di trina e merletto, altre arti ben note sull’isola) ha radici, diciamo così, esotiche. Si lega all’afflusso di nuclei arrivati (dopo lunghe e incerte peripezie) dall’Est del Mediterraneo e dalle terre retrostanti, analoghi e cugini primi di quelli sbarcati al loro tempo in Calabria. Lì, come a Isili, la lingua (divenuta gergo tramandato e speciale dei ramai) è di fatto l’Arbresh, di radice albanese. Che qui (evidentemente per commistione con le origini filologiche ed i luoghi d’arrivo) era detta anche Romaneska.

Non è dunque un caso che sia a Isili (in un ex convento di Scolopi) “il” (l’unico) Museo dedicato al Rame e ai suoi maestri, cui, animato anch’esso da sottofondo sonoro e visuale che tende a immergere il visitatore nelle “arti” antiche come fossero vita vissuta al momento, si è affiancato a inizio Novanta il Museo dei Tessuti (abbreviato a MaTe).

Quando qualcosa – qualsiasi cosa – finisce in un Museo, novantanove su cento, non è più contemporanea. Non esiste più. E sarebbe il destino del rame e dei ramai di Isili, cambiati i tempi, i modi, le necessità, gli utensili (ma non per fortuna la capacità di percepire la bellezza) se non vi fosse, attivo e vivo, un fantastico nucleo di resistenza: la famiglia Pitzalis.

Sulla breccia (meglio, al fornello e ai martelli e bulini) dal 1830, continua a sfornare capolavori: si tratti della pentola bivalve a incastro “su pratu de cassa”, il piatto della caccia, sistema per cuocere “in campo”, in umido e in un rudimentale quasi sottovuoto ciò che si era abbattuto; o le schiumarole che paiono fatte a tombolo; o il grande, classico caldaio “su caddargiu” istoriato con tradizionali e immortali motivi decorativi, e/o mille altri pezzi straordinari.

Essere antichi e contemporanei è una somma difficile da mettere insieme. Ma quando si ottiene, ecco che diventa proiezione diretta nel futuro. Non meraviglia dunque che nell’”antica”, ma vivissima oggi, officina Pitzalis a battere il rame (invece che a far stoffe al telaio, come voleva un’abitudine ai ruoli divenuta nei secoli legge) ci sia anche una donna: Eleonora. Nome da regina (meglio: da “giudichessa”), nome da destino, figlia del grande Luigi, da decenni imperatore del mestiere, con i fratelli Paolo e Andrea porta avanti il laboratorio e la bottega.

Ora al rame Eleonora sta aggiungendo immagini, rete e parole. Studia Scienze della Comunicazione per dare alla ditta-famiglia un colpo a sbalzo anche su quel fronte. E per ampliare un fronte operativo e commerciale che include, oltre ai pezzi citati, cappe di camino o caldaioni da casaro, tegami “custom”, secchielli da Champagne (alcuni, preziosi, hanno preso la via di Germania, mentre Sudamerica, Australia, Giappone, Svizzera sono altre mete di destinazione): tutto fattibile su ordinazione.

Ma Eleonora resta, in ogni caso e al fondo, la bambina che da subito si è sentita di casa in laboratorio, che da subito ha preso in mano gli strumenti di lavoro di papà e fratelli, e che sintetizza così la sua storia: “Sono cresciuta circondata da questo mestiere. Non mi sento un’eccezione, per me è sempre stata una cosa normale. L’ho sempre considerato meritevole di rispetto, ma solo crescendo ho capito quanto fosse speciale e rara questa nostra “arte”. Poi ho avuto diverse esperienze lavorative fuori dal mio paese, mentre cercavo di trovare la mia strada. Ed è proprio questa prospettiva distaccata che mi ha permesso di apprezzare ancora di più i valori che sono parte del nostro patrimonio e meritano di essere preservati e valorizzati”.

Ma le motivazioni per continuare, con tutte le alternative che si aprono ora a Eleonora? “Mi emoziona molto vedere come le persone si sentano uniche quando indossano o possiedono uno dei nostri pezzi. Sapere che il nostro lavoro può dare questo senso di unicità e valore personale è davvero gratificante”.

Eleonora ricorda con affetto e autoironia il primo lavoro tutto suo: “Ho debuttato con un’incompiuta. L’idea era bellissima, ma non ragionevole per un apprendista. Il progetto rappresentava un disegno grande abbastanza per essere un quadro, suddiviso in piccole mattonelle che disposte in modo ordinato avrebbero dovuto raffigurare un albero della vita. È rimasto lì a crescere. Ma la vita è lunga…”.

Ha un pezzo preferito tra quelli di casa? “É difficile scegliere, in realtà io sono più attratta da quelli che combinano le tecniche tradizionali col design contemporaneo. Però il protagonista indiscusso è e resta “su pratu de cassa”: ed effettivamente é un oggetto… assoluto”.

Infine, uno sguardo sul futuro, e su cosa fare per non sparire: “Insisterei sull’importanza di preservare queste tradizioni non solo per mantenere vivo un mestiere, ma anche per ritrovare un senso di appartenenza e identità. Credo sia importante capire che abbracciare un mestiere artigiano è un modo per costruire un futuro sostenibile, autentico, dove l’innovazione può convivere col rispetto per le radici e la storia. Siamo una generazione capace di apprezzare e valorizzare l’unicità, e il mestiere artigiano ci offre l’opportunità di esprimere questa sensibilità in modo concreto e significativo”.

Antonio Paolini

Antonio Paolini è una delle firme più autorevoli del giornalismo enogastronomico. È coordinatore Guide food Gambero Rosso. Ha co-fondato e scrive per la testata web Vinodabere.it. Ha lavorato a lungo al Messaggero (Esteri, Economia, wine & food columnist), ed è stato curatore dei Vini dell’Espresso e nel comitato esecutivo della Guida ai Ristoranti d’Italia. Ha scritto tra gli altri per L’Espresso, Spirito Divino, Monsieur, La Cucina Italiana, I Fiori del Male, e pubblicato decine di Guide. Nel 2008 gli è stato attribuito il Premio Veronelli. Attualmente collaboratore del gruppo Sae.

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