Antonio Marras in mostra con la ‘jana’: “Il mio legame speciale con Maria Lai”

La mostra comprende oltre 300 opere tra libri sfilacciati, abiti di seta bianca, pagine ricamate, acquerelli, lenzuola con fogli cuciti, federe dipinte, disegni, camice e campanacci, ceramiche, oggetti luminosi composti di ruote di biciclette e tessuti, telai, bozzetti, fotografie, cuscini e sottovesti. E poi dei grandi arazzi realizzati in Afghanistan, in Écru nero e bordeaux, e poi completati in Sardegna. “I tappeti li ho arricchiti con vecchi tessuti, tappezzerie, pezzi di parka militari, li ho spillati e alcune artigiane li hanno cuciti, rendendo ognuno di quegli arazzi un pezzo unico e irripetibile”, racconta lo stilista algherese Antonio Marras, descrivendo alcuni dei lavori inediti presenti alla mostra-evento “Trama doppia”, che comprende opere sue e di Maria Lai e alcune realizzate a quattro mani. L’esposizione è stata inaugurata l’8 dicembre a Matera – per la precisione a Palazzo Lanfranchi, che ospita il Museo nazionale d’arte medievale e moderna della Basilicata – e nasce su impulso dello stilista per dare un contributo importante alle celebrazioni sul centenario dalla nascita di Maria Lai, per giunta nell’anno di Matera Capitale europea della cultura. Gli allestimenti mettono in relazione opere dell’artista ogliastrina con quelle di Marras, creando un dialogo tra due sensibilità e approcci che hanno numerosi punti di contatto. Come a proseguire quello portato avanti fino alla scomparsa della jana, e che tanto ha dato ad Antonio Marras: è stata Maria Lai la prima a credere in lui e nel suo talento artistico. La mostra – ideata dallo stilista e da Francesco Maggiore – analizza anche la capacità di entrambi di ridare nuovi significati a oggetti dismessi, scarti e frammenti. “Maria mi ha insegnato a dare la vita a cose che in apparenza non respirano più”, racconta lo stilista.

Com’è nata la vostra amicizia?

Ci siamo piaciuti subito. Lei è stata la prima ad essere ammessa nel mio studio privato, personale, quello dove facevo  – e tuttora faccio – i miei pasticci. Prima erano nascosti nei cassetti, accumulati, impolverati, pieni di segni e di macchie di umido. Lei me li ha estorti, letteralmente. Me li ha fatti tirare fuori e per la prima volta ho superato il senso del pudore che mi impediva di mostrare in pubblico i miei lavori artistici.

È stato in quel momento che è nato il Marras artista?

Sì. Lei all’inizio sembrava avere una faccia perplessa. Poi mi disse: “Ti ho lasciato bambino e ti ritrovo artista”. Mi ha condotto in un altrove. Preso per mano e portato nel mondo dell’arte. Mi ha fatto capire anche che gli oggetti hanno una voce, un’anima, e quest’idea l’ho subito sublimata, concretizzata, accentuata con la mia necessità di voler recuperare pezzi vecchi, frammenti che rianimo, rimescolo, rimodello e che poi diventano un’altra cosa. Maria Lai mi ha insegnato a dare la vita a cose che in apparenza non respirano più.

In che modo l’arte ha influenzato il suo percorso nel campo della moda e viceversa?

Non faccio distinzioni. La moda è la moda e l’arte è l’arte e la fotografia è la fotografia e così via. Per quanto mi riguarda tutte le discipline sono elementi di un unico, grande impasto, una grande alchimia. Spazio, invado, degenero, mi inoltro e mi stratifico in mille cose differenti che poi danno via a quello che faccio.

In effetti negli ultimi anni il suo lavoro non conosce confini e lei si approccia a linguaggi molto differenti: moda, arte, teatro, installazioni…

Ho un bisogno fortissimo di lavorare. L’arte non conosce facilitazioni, spinte o sostegni altrui. L’arte prevede strade impervie, precipizi, arrampicate, cammini in situazioni non esattamente piacevoli. Dalla sofferenza e dal lavoro nascono le cose più interessanti. Ho l’esigenza, direi l’urgenza di fare cose, intervenire, riempire spazi, imbrattare fogli, superfici, tutto ciò che mi si palesa davanti. Quello che mi capita sotto mano viene contaminato da me. Questo è quello che faccio, il mio modo di procedere e di concepire le cose.

Le opere di Maria Lai hanno influenzato il suo lavoro? Ci sono dei punti di contatto?

Innanzitutto dico che le sue sono opere, le mie sono pasticci. La nostra relazione, il nostro connubio è stato scambiarci sguardi, pezzi di cose, fili, spaghi, frammenti, brandelli ed è stata una cosa naturale. Non ho idea di quali siano i punti di contatto perché non riesco a leggere il mio lavoro. Altri li hanno percepiti. Ero molto preoccupato, ad esempio, per la reazione di Maria Sofia Pisu, nipote di Maria, di fronte all’allestimento che mette in relazione le opere di entrambi. Ho collocato i lavori in modo insolito cercando di rendere omaggio alla sua grandezza. La nipote è rimasta molto contenta e mi ha detto: sembrano opere fatte insieme.

Però oltre all’arte c’è anche altro che vi accomunava: il legame molto forte coltivato con l’Isola pur avendo lavorato entrambi altrove.

Vivevamo in due posti molto distanti l’uno dall’altro – Cardedu-Alghero è un bel viaggio – ma tutti e due vicini al mare. Lei stava pure sotto una montagna, che si sgretola, friabile, ma forte, fatta di roccia, dove poi ha sviluppato un rapporto forte con quella Stazione dell’arte dove si sanciva la fine di un viaggio e l’inizio di un nuovo percorso. Ricordo il suo essere appartata, fuori dai giri, fuori dai giochi, dai meccanismi dell’arte; il suo essere generosa oltre ogni limite e anche così severa con chi non le piaceva; il suo essere tranchant in maniera sempre elegante – non l’ho mai sentita alzare la voce, o dire una parolaccia -; ecco, lei era una creatura avulsa ma profondamente legata alla realtà, al Dna, alle radici sarde. Una donna che nonostante avesse scelto di vivere fuori dall’Isola le era sempre rimasta fortemente legata. Anche io sono sempre legato ad Alghero, anche se la mia vita professionale è a Milano. Con quella voglia di “andare restando”: questa frase racchiude il senso di chi come me, e come Maria, ha avuto la voglia, la spinta di andare via, attraversare il mare, andare “in continente”, altrove, ma sapendo che ci sarebbe stato un ritorno.

Qual è il suo ultimo ricordo di Maria Lai?

Ci siamo visti a casa mia poco tempo prima della sua scomparsa. Sarebbe dovuta tornare per insegnarmi a lavorare la ceramica, ma non ci fu occasione. Questa è una specie di eredità che mi ha lasciato. Ho iniziato a mettere le mani in pasta, come diceva lei. Grazie a una azienda pugliese che mi ha dato il materiale per iniziare. Lavorare la ceramica mi aiuta, è una sorta di terapia perché mi consente di dimenticare tutto ciò che ho intorno. Faccio, disfo, modello ed è un lavoro in continua evoluzione. Vado random e faccio esperimenti che sembra facciano inorridire gli splendidi artigiani che mi supportano, ma che poi sono felicissimi dei risultati inaspettati. Interagisco con la materia in modo incosciente, che poi è quello che faccio di solito in generale.

Negli ultimi due, tre anni c’è stata una celebrazione notevole del lavoro di Maria Lai a livello internazionale. Al netto delle speculazioni del mercato dell’arte, è contento del fatto che l’artista stia raccogliendo quello che avrebbe meritato di raccogliere in vita?

Certo, ma se lo sarebbe meritato davvero quand’era viva. Sarebbe stato bello se qualcuno l’avesse segnalata nel mare magnum di tanta banalità nel mondo dell’arte a fronte di una offerta – la sua – davvero – incredibile. La sua opera è una cosa speciale, come erano speciali i lavori che ha fatto. Dopo la sua scomparsa c’è stata una corsa fortissima alle sue opere e anche io sono stato contattato molte volte per far uscire i miei lavori con lei. Non mi sembrava giusto, non mi sembrava mai il momento. Mi hanno spinto a farlo il centenario dalla nascita e l’occasione di Matera Capitale europea della cultura, città dove lei ha lavorato e lasciato segni molto belli. Parlando con la nipote poi abbiamo instaurato subito un clima di grande fiducia reciproca. Sono contento di non averla tradita e di aver aspettato tanti anni. La nipote mi ha detto: la fiducia è stata ripagata.

Tra le opere in mostra a Matera c’è anche un suo abito dedicato a lei.

L’abito risale a molto prima che la conoscessi di persona. Lo avevo intitolato Fililailai, che mi sembrava una filastrocca. Per la mostra non volevo manichini e abiti che ricordassero la mia attività, così l’ho schiacciato tra due lastre di plexiglas che diventano una specie di pannello: è allestito come se fosse un quadro. È in seta bianca che avevo dipinto con un tratto nero e lì vi avevo fatto cucire dei fili che pendevano dall’abito.

C’è un’opera che naturalmente non avete potuto esporre, quella nel suo studio algherese intitolata “Tra fili e pensieri”.

Quella è fissata su un grandissimo muro di cemento armato nel mio studio e non si può trasportare. Un giorno eravamo insieme e mi disse: voglio farti un telaio. Non avevo la più pallida idea di cosa sarebbe successo. Rimase tutta la mattina a guardare la parete, poi mi disse: andiamo a pranzo, il muro non ha parlato. Ha continuato a lungo a fare prove su carta, che strappava perché non era soddisfatta. Io ho raccolto tutti quei fogli e li ho ricomposti, ricostruendo l’iter del suo lavoro: quei fogli ora sono compresi nella mostra. Il muro alla fine naturalmente parlò: fece installare dei tasselli dai muratori e passare dei fili tra di loro. Nel muro poi scrisse alcune frasi delle sue. Bellissime. (Tutte le foto sono di Daniela Zedda)

Andrea Tramonte

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