di Andrea Tramonte
Un editore universale come Roberto Calasso non poteva che uscire di scena il giorno dell’uscita di un suo libro. Anzi due: Bobi e Memè Scianca, dei memoir nei quali lo scrittore – morto ieri a Milano all’età di 80 anni – si ricongiunge alla sua origine; il rapporto affettuoso e fecondo con Bobi Bazlen, figura enigmatica e decisiva dell’editoria italiana e fondatore della Adelphi, e la sua infanzia a Firenze durante e dopo la Guerra, con le prime scoperte legate alla musica e alla letteratura. Calasso ci ha lasciato ieri dopo una lunga malattia e lascia un vuoto incolmabile nella cultura italiana. Suona come una frase fatta, uno di quei luoghi comuni tipici dei coccodrilli giornalistici, ma è esattamente così. Il suo impegno intellettuale e il suo lavoro hanno plasmato la Adelphi, casa editrice che rappresenta un unicum nella cultura italiana (ed europea). Un catalogo pensato come libro unico composto da tutti i libri pubblicati nel corso degli anni, con rimandi, connessioni sottili, complicità e contrapposizioni che rappresentano uno sforzo di pensiero assoluto e vertiginoso dentro il quale perdersi, e dove trovano spazio letteratura mitteleuropea (Joseph Roth, Karl Kraus, Hugo von Hoffmansthal, Robert Musil, Arthur Schnitzler, Adolf Loos, Ludwig Wittgenstein) e meccanica quantistica (tra i più recenti bestseller ci sono i bellissimi testi del fisico Carlo Rovelli), l’opera omnia di Nietzche e le religioni orientali, la gnosi cristiana e tantissimi eccentrici di ogni tempo e luogo, il mito e la letteratura fantastica, Thomas Bernhard e George Simenon. Uno spazio a-storico e a-temporale che si dipana nell’arco di decenni attraverso libri che hanno segnato l’immaginario collettivo italiano, in diversi casi diventando bestseller e fatti di costume (si pensi a L’insostenibile leggerezza dell’essere di Kundera, a La cripta dei cappuccini di Roth, a La versione di Barney di Mordecai Richler, per citarne alcuni). Calasso era a tal punto “la” Adelphi che ora ci si chiede come andrà avanti la casa editrice. Ma è altamente probabile che l’editore abbia pianificato le uscite dei prossimi anni, continuando a mantenere la sua impronta anche in futuro.
La Adelphi nacque nel 1962, quasi sessant’anni fa. Allora Calasso era un freschissimo neo-laureato in letteratura inglese ed entrò in contatto con Bobi Bazlen, che allora stava iniziando a stendere il programma di una nuova casa editrice insieme a Luciano Foà e Roberto Olivetti. Lo invitò nella villa dello psicanalista Ernst Bernhard a Bracciano per iniziare a pianificare le tappe successive. La casa non aveva ancora un nome ma un programma ambizioso sì: pubblicare solo “libri che ci piacessero”. Tutto ruotava, all’inizio, intorno a pochi concetti chiave. I “libri unici”, romanzi brucianti e necessari di non-romanzieri in cui “si riconosce che all’autore è accaduto qualcosa e quel qualcosa ha finito per depositarsi in uno scritto” e che avevano anche corso il rischio di non vedere la luce (“L’opera perfetta è quella che non lascia tracce”, diceva Zhuang-Zi, maestro di Bazlen). E poi la contrapposizione implicita alla Einaudi di quegli anni e al suo progetto pedagogico nei confronti della società italiana: la Adelphi non voleva “orientare” il lettore politicamente (e per questo si è pure beccata l’accusa di essere di “destra”, complice anche la scelta a volte di autori implicitamente conservatori o smaccatamente reazionari). Poi la scelta del colore nelle copertine – proprio in antitesi al bianco einaudiano -, della carta opaca e dei toni intermedi, il classico pastello adelphiano che rende variopinte e tenui le nostre biblioteche casalinghe. L’ispirazione arrivava dal lavoro del pittore e illustratore inglese Aubrey Beardsley e delle sue copertine realizzate alla fine dell’Ottocento. Ma soprattutto la pubblicazione integrale del corpus di scritti dell’autore di Ecce Homo, che non a caso contiene un illuminante saggio dello scrittore fiorentino. “L’edizione critica di Nietzche era quasi una giusta ovvietà – ha scritto Calasso -. Da che cosa si sarebbe potuto cominciare altrimenti? In Italia dominava ancora una cultura dove l’epiteto “irrazionale” implicava la più severa condanna. E capostipite di ogni “irrazionale” non poteva che essere Nietzche. Per il resto, sotto l’etichetta di quell’incongrua parola, disutile al pensiero, si trovava di tutto. E si trovava una vasta parte dell’essenziale”.
Un “libro unico” è anche Il giorno del giudizio di Salvatore Satta, che è stato proprio Calasso a lanciare – e a trasformare in un caso editoriale – nel 1979. Il libro era uscito due anni prima per la Cedam di Padova, una casa editrice specializzata in testi giuridici. Il romanzo era passato inosservato e Satta lo aveva proposto a tutti i grandi editori italiani, che lo rifiutarono. “Fino a quando un ragazzino, Roberto Calasso, mi disse: Lo faremo”, ricordò lo scrittore nuorese. “È un libro fondamentale della letteratura italiana del Novecento, continuo a esserne convinto – ci aveva detto nel 2006 -. conoscevo Satta come giurista e non come scrittore. Fin da quando ero bambino, perché frequentava la casa di mio padre, giurista anche lui. Quando ho letto Il giorno del giudizio sono rimasto molto colpito”. Calasso lanciò nel mercato nazionale anche un altro scrittore sardo, Salvatore Niffoi, conducendolo alla vittoria del Premio Campiello nel 2006 con La vedova scalza. “Da lui sgorga una proliferazione straordinaria di storie – spiegò l’editore -, un bacino che sembra inesauribile”