“Non capisco questo clamore mediatico, per 60 anni circa nessuno si è mai preoccupato di noi e del nostro territorio e ora tutti parlano di Capo Frasca. Tutto questo mi suona strano. Non vorrei fosse solo una questione politica”. Antonio Dessì gestisce insieme ai fratelli uno dei due bar di Sant’Antonio di Santadi, piccola frazione di Arbus davanti al promontorio dove si trova la base militare, tra il Sinis e le splendide spiagge della Costa Verde. L’uomo è nato e cresciuto nella zona e su quello che sta accadendo in questi giorni ha le idee chiarissime: “Si preoccupano degli incendi e delle esplosioni – dichiara – ma non si sono mai accorti che il nostro borgo è completamente isolato, non abbiamo mai avuto un istituto di credito, un benzinaio, e persino la telefonia mobile sembra essersi dimenticata di noi”.
Isolamento, manchevolezze, adesso anche i rumours legati a quello che accade nei 14 chilometri quadrati della base militare: “Non siamo né favorevoli, né contrari alla chiusura della base“, ammette Enzo, mentre impila le sedie di plastica alla chiusura del bar. Il più grande dei fratelli Dessì mantiene il suo scetticismo davanti all’improvviso interessamento delle istituzioni: “Prima era diverso, quando esisteva la leva obbligatoria i militari erano molto più numerosi e la ricaduta economica era evidente anche per noi. Anche i militari che arrivavano per le esercitazioni, soprattutto tedeschi, erano molto più numerosi. Adesso, a parte pochi ufficiali e sottufficiali con le loro famiglie, la base è frequentata da molte meno persone”.
Con lo spopolamento militare di Capo Frasca anche le persone del posto chiamate a lavorare per la base (servizi di pulizia e gestione dello spaccio e della mensa) si sono ridotte notevolmente: “Certo – aggiunge Antonio – se dovessero fare così come è stato per La Maddalena sarebbe un problema. Lì, infatti, non c’è mai stata una bonifica e qui il territorio a ridosso della base e i fondali sono disseminati di bombe e materiale inesploso”.
Il poligono di Capo Frasca è il terzo d’Europa per estensione territoriale, sorto nella metà degli anni Cinquanta si estende in un’area di 14 chilometri quadrati, sul territorio del comune di Arbus, nella costa sud-occidentale della Sardegna. La presenza segnalata di ordigni inesplosi a terra e soprattutto in mare e le esercitazioni militari fanno ricadere su ampia parte del territorio circostante il divieto di esercitare la pesca, coinvolgendo e penalizzando quindi in maniera diretta le popolazioni, i pescatori, le cooperative e le zone marine di Arbus, Guspini, Terralba, Arcidano, Marceddì, Cabras, Riola Sardo, e Oristano. Inquinamento acustico, incendi, esplosioni, limitazioni nel transito marittimo per i pescatori di Marceddì, ce ne sarebbe abbastanza per insistere a oltranza affinché i militari si decidessero a fare le valige. Ma non tutti gli autoctoni sono così restii alla permanenza degli avieri dell’aeronautica militare italiana e dei loro “ospiti” stranieri: “Non mi hanno mai creato problemi – dichiara serafico Gianni Meloni (originario di Arbus, ma trapiantato a Sant’Antonio da circa 15 anni), uno dei due venditori di arselle che ogni giorno, armato di grandi bacinelle di plastica vende a bordo strada la propria merce a turisti e passanti -. Hanno dato persino il permesso di pascolo a un allevatore all’interno della base. Prima le esercitazioni erano molto più frequenti. Ora sono decisamente diminuite e d’estate il rumore è calato notevolmente, proprio per non intralciare il turismo, che anche se stentato resta una risorsa per questa zona. Io non smantellerei la base – insiste Meloni, intento a pesare un sacchetto di cozze – comunque resta una risorsa, perché offre lavoro e, anche se meno rispetto ad anni fa, porta sempre un po’ di gente. In ogni caso – sottolinea – trovo molto strano che ora se ne parli così tanto. Prima l’opinione pubblica non si era mai posta il problema”.
Il materiale esplosivo abbandonato in ogni caso c’è e fa paura: i pescatori della zona parlano di centinaia di oggetti metallici disseminati nei fondali, senza contare le bombe sganciate dall’alto sul promontorio. La zona, importante dal punto di vista ambientale e quindi turistico è anche ricca di testimonianze archeologiche: nel territorio si trovano infatti almeno 13 nuraghi e nell’area della base, in età nuragica e fenicia adibita ad approdo mercantile, è stato localizzato anche un tempio punico dedicato ad Astarte, menzionato anche da Alberto La Marmora e Sabatino Moscati. Zone inaccessibili ai più, tratti di mare dove i pescatori non possono transitare con i loro pescherecci, aree dove vengono svolte esercitazioni alla guerra nucleare (incostituzionali) che nasconderebbero segreti, simili a quelli di Quirra o, peggio, dei fondali della non lontana Is Arenas, in provincia di Oristano, dove è stata trovata una formazione rocciosa che qualcuno ritiene sia una colata di cemento destinata a ricoprire un sommergibile di circa 75 metri (ipotesi smentita dalla Marina Militare, che sostiene si tratti di una formazione naturale). La conversione, prima della dismissione, sarebbe una scelta logica per Anna Dessì, proprietaria del bar: “Magari prevedendo lo svolgimento di attività differenti da quelle attuali, che abbiano ricadute positive, anche attraverso interventi di pubblica utilità, sui territori – fa notare la donna – con lo svolgimento di attività non militari, ma civili”.
Il reale problema è delicato perché la servitù militare pone dei divieti di transito marittimo: “L’economia del territorio di Arbus e Terralba è basata sull’agricoltura, sulla pastorizia, sul turismo e, in modo particolare per Terralba, sulla pesca – spiega Lucia Dessì, la più giovane delle sorelle che gestiscono il bar di Sant’Antonio -. Le cooperative della zona sono limitate nel transito marittimo praticamente per tutti i mesi dell’anno, in quanto il divieto insiste su un’area di mare molto estesa e costringe i pescherecci a non uscire”. In effetti l’unico corridoio utile non ha fondale (e quindi pescaggio) e si può attraversare solo in particolari ore della giornata. In pratica, i pescherecci devono uscire molto presto e rientrare molto tardi, il che è impossibile. Inoltre, sono costretti a fare un giro enorme, con grande dispendio di carburante.
Arbus è lontana, ma il comune di Terralba ha una borgata marina (Marceddì) dove la Regione ha fatto costruire un porticciolo polivalente, sia turistico sia per la pesca. Tale porticciolo non ha mai potuto decollare proprio per l’esistenza di questi divieti di transito marittimo: le imbarcazioni non attraccano né d’estate né d’inverno, nonostante ci sia un porto naturale e con qualsiasi tipo di vento le imbarcazioni siano protette dalle mareggiate. Un danno evidente per la zona.
I pescatori dovendosi mantenere a diverse centinaia di metri o a qualche miglio marino (a seconda dei punti) dalla battigia, non possono buttare le reti neppure in quella fascia. In pratica gli stessi non possono uscire né entrare, quindi non possono pescare e i contributi a titolo di risarcimento sono nulli (i risarcimenti in denaro vanno invece al Comune di Arbus che li reinveste in altre attività). In base all’articolo 332 del codice dell’ordinamento militare del decreto, come recita un’interrogazione parlamentare presentata nel maggio del 2014 dai deputati di Sel Michele Piras e Donatella Duranti, “è previsto un indennizzo in favore delle attività che vedono leso il loro diritto di impresa. L’attività della pesca nei tratti di mare interdetti adiacenti al poligono di Capo Frasca è fortemente penalizzata dalle limitazioni dovute alle attività militari, ma i pescatori non sono inseriti tra i beneficiari degli indennizzi, come previsto dalle leggi numero 898 del 1976 e numero 104 del 1990 e dal protocollo d’intesa siglato nel 1999 tra il Ministero della difesa e la Regione Sardegna. Lo stesso protocollo d’intesa riconosce, invece, che le marinerie interessate all’erogazione degli indennizzi siano quelle di Sant’Antioco, Calasetta, Sant’Anna Arresi, Teulada, Portoscuso, Domusdemaria, Buggerru, Carloforte, Tortolì, Villaputzu, Tertenia, Lotzorai, Siniscola, Orosei, Posada, Dorgali, e Siniscola. Sono escluse dagli indennizzi, quindi, le cooperative di pescatori e le marinerie delle province del Medio Campidano e del Golfo di Oristano, in particolare quelle della zona interessata, adiacenti al poligono di Capo Frasca e fortemente penalizzate nell’attività della pesca dai tratti di mare interdetti per le esercitazioni militari”.
Nell’aprile del 2013 il Ministero della difesa e la regione Sardegna hanno assicurato alle cooperative della zona, che vedono coinvolte circa 1000 imbarcazioni, una pronta risoluzione del problema, ma a distanza di oltre un anno non ci sono stati atti concreti conseguenti. Da quando è stata costituita la servitù militare, contestualmente alla costruzione di una base Nato per il controllo degli aerei che arrivano da Decimomannu, esisteva un tacito accordo: i militari lasciavano che i pescatori potessero esercitare la loro attività, purché essi non si inoltrassero nella terraferma. Da un po’ di tempo, invece (sostanzialmente da quando le attività militari sono diminuite), i controlli si sono irrigiditi. Quell’accordo tacito, che è stato valido per oltre trent’anni, è venuto meno. Gli anni scorsi, infatti, c’erano stati momenti di forte tensione a seguito di un’ordinanza della Capitaneria di porto che applicava, in maniera sistematica e precisa, il divieto di transito e di ancoraggio. Solo grazie all’intervento del prefetto si era riusciti a placare gli animi e a evitare che si svolgessero manifestazioni in mare.
“Noi non siamo contrari all’abolizione della servitù militare del poligono di Capo Frasca – conclude Antonio Dessì – anche perché la presenza della base ha delle minime ricadute economiche sul territorio, che si riversano quasi totalmente su Terralba. Sarebbe invece più corretta l’abolizione del divieto di transito marittimo che, per come sono impostate attualmente le esercitazioni, non ha più senso”. Pesca danneggiata, esattamente come il turismo: sì, perché tutta la zona lagunare (un’estesa zona umida, molto importante e inclusa nella Convenzione di Ramsar) appartiene al demanio marittimo che, da oltre quarant’anni, non permette di svolgere alcuna attività che consenta lo sviluppo turistico di questa parte del territorio.
Federico Fonnesu