Sempre più giù. L’annuale classifica delle università italiane stilata da “Il Sole24ore” è impietosa: i due atenei sardi sono in fondo alla classifica, tra i peggiori, in buona compagnia con la maggior parte del Mezzogiorno. Sassari occupa il 50esimo posto, perdendo ben due posizioni rispetto al 2015, Cagliari rimane stabile al 59esimo posto, terzultima rispetto ai fanalini di coda rappresentati dall’Università della Calabria e Napoli Parthenope. Il quadro generale è eloquente e disegna un’Italia spaccata in due, dove è il Nord a fare la parte del leone occupando i posti più alti della graduatoria con la triade di Verona, Trento e Bologna piantate sul podio, ad eguagliare il risultato di un anno fa. Per trovare un ateneo del Sud bisogna arrivare a Salerno, che guadagna ben dieci postazioni inserendosi all’interno della “Top 20”; una vera e propria eccezione rispetto alle performance deludenti di Campania, Calabria, Sicilia e Sardegna che al netto sono le regioni con il “ranking” peggiore.
Per arrivare a queste conclusioni sono stati utilizzati 12 indicatori che misurano in sostanza i risultati di didattica e ricerca i quali, come ha ben evidenziato il giornale economico, sono legati a fattori di lungo periodo e hanno necessità di tempo per “mostrare significativi cambi di ritmo”. Questo ci fa capire come il massimo sistema di istruzione sia piuttosto “pachidermico” nel suo cammino e poco propenso a innovarsi con celerità per via di una accademia ancorata a sistemi consolidati. Il quotidiano fa notare, inoltre, come il sistema utilizzato sia sintetico poiché mette a confronto strutture che per storia, dimensioni e territorio sono diversissime. Nel caso delle università sarde, ad esempio, un fattore che ha influito pesantemente in maniera negativa è quello dell’insularità, questo fa sì che Sassari e Cagliari siano poco appetibili per gli studenti non sardi e per progetti di ricerca ad ampio respiro. Altri parametri riguardano il numero medio dei docenti, la capacità di garantire puntualità negli studi e arginare i fuori corso, i collegamenti internazionali, stage ed esperienze lavorative durante gli studi. Ben tre indicatori mettono a fuoco la ricerca, all’interno di macro aree esaminate dall’Agenzia nazionale di valutazione: la qualità della produzione scientifica, quella dei dottorati e la capacità dei dipartimenti di ottenere dei finanziamenti esterni per i loro progetti.
Se andiamo perciò a osservare i due atenei sardi emerge un quadro più complesso e con un andamento incidentato simile a delle vere e proprie montagne russe con sali e scendi in graduatoria piuttosto importanti. Per la didattica Sassari è al 46esimo posto, Cagliari 53esima, ma per la ricerca entrambe colano a picco: la prima è 51esima, la seconda 56esima su una classifica di 61 atenei italiani. Stesso discorso vale per l’attrattività che, come si accennato prima, le fa occupare gli ultimi due posti, ma se si guarda alla sostenibilità ad esempio, Sassari guadagna terreno sino ad arrivare 19esima, Cagliari 30esima. Anche per quanto riguarda i crediti ottenuti negli stage la performance dell’ateneo del “Capo di sopra” è ottima, figurando addirittura al numero sette, mentre al sud, il capoluogo regionale si ferma dieci posizioni indietro, in buona compagnia con Roma La Sapienza.
Interessanti sono anche le percentuali degli studenti che ottengono crediti all’estero: Sassari conferma il suo settimo posto insieme al Politecnico di Milano, un segnale che indica come nell’ateneo turritano la mobilità fuori dall’Italia – con il progetto Erasmus o Leonardo e con i post doc – sia ampiamente utilizzata e apprezzata; Cagliari si ferma poco più su di metà, al 24esimo posto. Le borse di studio rimangono invece un tasto dolente: 46ma Cagliari, 54esima Sassari, mentre per dispersione, cioè la percentuale di ragazzi che si ri-iscrivono al secondo anno nella stessa università, sono tutte e due a metà della lista: Sassari con 36, Cagliari con 41.
Se però si misura l’efficacia, ovvero la media pro capite dei crediti formativi ottenuti in un anno si sprofonda nuovamente nel baratro: Sassari tocca quota 53, Cagliari 56, per quest’ultima poi cala anche la mannaia del giudizio di chi si sta per laureare: è così impietoso da farla scivolare rovinosamente al 59 gradino, terzultima in tutta Italia, mentre per Sassari va decisamente molto meglio visto che conquista un rispettabile 34esimo posto. Però, per quanto riguarda l’occupazione lavorativa dopo la fine degli studi è Cagliari a prendersi una bella rivincita su Sassari piazzandosi 39esima, rispetto all’altra che è 46esima.
Per quanto riguarda invece la produzione scientifica i due atenei sono a pari merito al 40esimo posto, insieme a un nutrito numero di università quali Roma La Sapienza e l’Orientale di Napoli, ma entrambe hanno un grossissimo handicap per quanto riguarda la loro capacità di attrarre risorse per i propri progetti di ricerca: Sassari arranca al 48esimo posto, Cagliar addirittura al 54esimo, mentre per la qualità dei dottorati il ranking è più generoso visto che sono a metà graduatoria: Sassari a 34, Cagliari a 43. È indubbio che il loro essere in un’isola sia il fattore trainante sul basso appeal delle due istituzioni a cui si va a sommare la cronica mancanza di entrate che però investe l’intera nazione. Come fa notare “Il Sole24ore”, i finanziamenti correnti della sola Harvard valgono più di due terzi di tutto quello italiano e, per rimanere in Europa, sono un terzo di quelli tedeschi. A questo si somma poi il ricambio generazionale, completamente sclerotizzato: su 10mila dottori di ricerca all’anno ci sono a mala pena meno di mille posti da ricercatore. Senza contare poi i mancati rinnovi contrattuali che fanno disperdere al vento anni di sacrifici; così per molti ricercatori la strada dell’estero diventa praticamente obbligata, soprattutto quando il lavoro fatto non porta a nessuna stabilizzazione contrattuale che ripaghi questi giovani studiosi in maniera adeguata. Perciò in Italia viene a crearsi un corpo docente non solo invecchiato – i più giovani hanno 40 anni rispetto ai loro colleghi europei che ne hanno 25 in meno – ma anche con stipendi inferiori alla pensione dei colleghi più anziani. Una situazione drammatica a cui è necessario porre rimedio per permettere al sistema italiano di poter veramente competere alla pari con il resto d’Europa. Perché gli spettri del provincialismo e dell’autoreferenzialità sono molto più vicino di quanto si immagini.
Francesco Bellu