Trivelle in mare, ecco perché il “caso-Tremiti” riguarda anche la Sardegna

Scoppiata la rivolta anti-trivelle, il ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi ha cercato di sedare gli animi surriscaldati dalla concessione del permesso di ricerca di idrocarburi al largo delle Isole Tremiti rilasciata dal suo dicastero lo scorso 23 dicembre. L’intervento del governo non ha sortito effetti, tant’è vero che il governatore della Puglia Michele Emiliano (Pd) ha già fatto sapere che solleverà un conflitto di attribuzione contro il governo davanti alla Corte costituzionale.

“Nessuna nuova trivellazione, si tratta di semplici prospezioni geofisiche. Inoltre, siamo ben oltre le 12 miglia di distanza dalle coste”: queste le parole della Guidi a difesa della decisione prenatalizia di accordare i permessi alla Petroceltic Italia. C’è del vero nelle dichiarazioni del ministro: per il momento non è prevista nessuna trivellazione a largo delle Tremiti. Ma, cosa ancora più importante, le parole del ministro riguardano da vicino la Sardegna, i cui mari sono minacciati dalla richiesta di permesso di ricerca per idrocarburi presentata dalla norvegese Tgs – Nopec, ancora in fase di valutazione ambientale presso il ministero dell’Ambiente: in tutto, 20.000 chilometri quadrati (una superficie vasta quasi quanto l’intera Sardegna) tra le coste nord-occidentali dell’Isola e le Baleari.

Cosa c’entrano, dunque, le Tremiti con la Sardegna? C’entrano, eccome. Stando ai documenti ufficiali, in entrambi i casi, le aree d’intervento delle società petrolifere distano dalla costa più di dodici miglia marine. E a questa distanza corre la sottile linea rossa oltre la quale per il governo è possibile ricercare e sfruttare gli idrocarburi.

Il limite è stato reintrodotto proprio dal Governo Renzi con la Legge di stabilità del 2016, dopo che era stato rimosso dal decreto Sviluppo dell’ex premier Mario Monti.

Sulla recente decisione del governo è in corso un acceso dibattito. “Che sia una mossa del governo per depotenziare i referendum richiesti da 10 regioni e molti comitati territoriali contrari alle trivellazioni?”, si chiedono alcuni. La domanda ha senso, visto che il referendum punta a ripristinare il confine entro il quale nessuna operazione è concessa alle società del settore oil&gas.

Altri, invece, credono che “le nuove norme siano il risultato delle forti pressioni innescate dalla conversione in legge del decreto Sblocca Italia, che aveva attribuito rilevanza strategica all’estrazione di petrolio e gas”.

In ogni caso, i dubbi non intaccano una certezza: tanto le nuove norme introdotte a dicembre dal governo che i quesiti referendari – sempre che vengano accettati dalla Corte Costituzionale, dopo la bocciatura di cinque quesiti su sei della Corte di Cassazione ) non minano le mire delle società petrolifere nelle Tremiti e in Sardegna. Nè scalfiscono il potere di decisione del governo su eventuali trivellazioni oltre le 12 miglia, come precisano i trattati internazionali di Ginevra e Montego Bay, oltre a numerose leggi dello stato.

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Insomma, tanto le norme introdotte con la legge di Stabilità che i quesiti referendari sono delle armi spuntate. Ma, allora, perché il Consiglio regionale della Sardegna sta portando avanti con tanta energia una battaglia che corre il serio rischio di essere improduttiva?

Un senso della politica più alto oggi dovrebbe portare i nostri governanti – a tutti i livelli –  ad impegnarsi per una moratoria sulle attività di ricerca e sfruttamento di idrocarburi, off e on-shore. Anche perché chi va alla Cop 21 di Parigi e si dice contrario all’utilizzo dei combustibili fossili, salvo fare il contrario appena rientrato a casa, finisce per razzolare male.

In verità, tra la Sardegna e le Tremiti ci sono altri punti di contatto. E non solo perché in entrambi i casi siamo di fronte a due perle del Mediterraneo la cui vocazione turistica è intimamente legata alla bellezze naturalistiche offerte dalle due isole. Una prima analogia riguarda la previsione di utilizzo – tanto da parte della Petroceltic che della Tgs-Nopec – della tecnica dell’airgun per la ricerca dei giacimenti sottomarini di gas e petrolio.

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In pratica, delle vere e proprie bombe ad aria compressa con intensità variabile fra 240 e 260 decibel, che verranno scagliate sui fondali ogni quindici secondi per ventiquattro ore al giorno, equiparate a degli illeciti dalla prima versione del dl sugli ecoreati. Poi non se ne fece più niente, anche perché il Pd non volle tirare la corda.  All’airgun e allo sfruttamento dei giacimenti di idrocarburi a mare si oppongono oggi movimenti in tutto il mondo: dalle Baleari all’East coast degli Stati Uniti. Come afferma la fisica e docente alla Californian State University Maria Rita d’Orsogna ( posizioni simili vengono espresse dalla Regione Sardegna), “il rischio è che i cetacei e il pescato vengano lesionati”. Insomma, oltre ai pesci, a rimetterci saranno anche i pescatori.

Piero Loi

@piero_loi on Twitter

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