Novecento migranti morti in fuga per la libertà: via da guerre, povertà o conflitti etnici, spesso, troppo spesso, innescati – direttamente o meno – dai paesi del primo mondo. Il risultato è che la ricerca della tanto agognata libertà si ferma al braccio di mare che divide le coste siciliane da quelle del Nord Africa. Oppure s’interrompe sulla terra ferma, una volta sbarcati nell’Italia dello strisciante razzismo, delle guerre tra poveri alimentate dalla propaganda politica e del business sulla pelle dei più deboli portato alla luce dall’inchiesta su Mafia Capitale. C’è profonda amarezza nelle comunità degli immigrati residenti in Sardegna, un’amarezza, tuttavia, in cui il dolore lascia spazio a una lucida analisi sui grandi temi della gestione dei flussi migratori da parte della Comunità Internazionale e dell’accoglienza all’arrivo sullo stivale.
Per Abderrazak Chaabani, segretario regionale Uil Temp e referente del Consolato tunisino in Sardegna, i morti nel Canale di Sicilia rappresentano “l’ennesima tragedia, a dispetto delle tante promesse della Comunità internazionale, che finora ha dimostrato solo a parole l’intenzione di gestire diversamente i flussi migratori”. E aggiunge: “Bisogna partire da un dato incontrovertibile: non serve a niente chiudere le frontiere, come accade oggi, o praticare dei blocchi navali, siamo di fronte a un fenomeno inarrestabile, ulteriormente accentuato dall’ingerenza dei paesi occidentali e delle multinazionali nella vita dei paesi da cui gli immigrati scappano”. “Ragion per cui occorre dare agli immigrati la possibilità di entrare liberamente e chiedere poi una regolarizzazione”, conclude Chaabani.
Dello stesso avviso Kilap Gueye, senegalese, mediatore culturale e presidente dell’associazione Sunugaal che promuove a Cagliari l’integrazione culturale. “Anziché blocchi navali, l’Italia dovrebbe creare dei corridori umanitari e funzionare per i migranti come un trampolino per raggiungere altri paesi. Occorre allora rivedere la convenzione di Dublino, che obbliga i rifugiati a sostare nel paese d’arrivo”. Insomma, non solo libera circolazione delle merci, ma anche delle persone. “L’Italia ha comunque firmato gli accordi di Dublino – continua Gueye – e dunque ha il dovere di prendersi cura delle persone che arrivano sul suo territorio, ma è il modo in cui viene organizzata l’accoglienza ad essere sbagliato: certo bisogna prestare soccorso sanitario e insegnare la lingua, ma non servono le gabbie dei Cpa. Piuttosto si dovrebbe favorire l’inserimento sociale degli ultimi arrivati anche attraverso l’esperienza degli immigrati già presenti da tempo sul territorio”. A sostegno della sua tesi, Gueye nota che “un numero sempre maggiore di ragazzi italiani si reca all’estero per studio o lavoro, pertanto i giovani immigrati rappresentano una risorsa aggiunta, anche perché sono portatori di un saper fare spesso non riconosciuto”.
Che gli immigrati rappresentino una risorsa aggiunta lo sostiene anche Chaabani, il quale ricorda che “oltre due milioni di italiani percepiscono le loro pensioni proprio grazie al lavoro degli immigrati, che devono avere accesso a una giusta retribuzione”, ricorda il sindacalista.
Nei commenti del giorno dopo la tragedia, non mancano poi alcune riflessioni sul clima di strisciante razzismo di questi tempi. E se entrambi gli intervistati denunciano la sovraesposizione mediatica di Matteo Salvini, “uno che fa propaganda contro le fasce più deboli, giocando sulla vita degli immigrati”, considerata negativamente perché diffonde un sentimento d’odio, i due hanno pareri diversi sul contesto sardo. Per Chaabani, nessuno è meno razzista e più ospitale dei sardi, popolo di emigrati, mentre per Gueye, il moltiplicarsi degli episodi di intolleranza rivela come il volto di Cagliari e della Sardegna stia cambiando”.
Piero Loi