La sanità sarda continua a essere sotto pressione. Secondo un’indagine condotta dalla Federazione dei medici internisti ospedalieri (Fadoi), tra marzo e aprile, il 100% dei reparti di medicina interna in Sardegna opera regolarmente in condizioni di sovraffollamento, spesso senza disponibilità di letti. In molti casi i pazienti – come riporta l’Ansa citando il report – sono costretti a restare in barella nei corridoi, con separazioni minime a garantirne la privacy e la dignità.
Le difficoltà strutturali degli ospedali si intrecciano con un dato ancora più critico: un terzo dei ricoveri sarebbe potenzialmente evitabile attraverso una presa in carico territoriale più efficace e un’adeguata attività di prevenzione. In alcune unità operative, la quota di ricoveri evitabili supera addirittura il 40%.
L’indagine mette in evidenza anche il ruolo centrale della prevenzione, troppo spesso assente o inefficace. Il 32% dei ricoveri è attribuito direttamente alla mancanza di attività preventive, un indicatore che conferma le lacune di una sanità territoriale ancora in difficoltà nel gestire i bisogni della popolazione al di fuori delle strutture ospedaliere.
Uno dei segnali positivi arriva dall’incremento, seppur limitato, dell’assistenza post-ricovero. Il 33% dei pazienti dimessi accede oggi all’assistenza domiciliare integrata, mentre un altro terzo viene trasferito in residenze sanitarie assistite o strutture intermedie. Tuttavia, la riforma della sanità territoriale, avviata a livello nazionale anche con i fondi del Pnrr, sembra ancora procedere a rilento.
Le cosiddette “case della comunità” e gli “ospedali di comunità”, pensati per decongestionare i reparti ospedalieri e migliorare l’accesso ai servizi sanitari di prossimità, sono ancora poco diffusi. In Sardegna, attualmente, sono operativi solo due ospedali di comunità: uno a Ghilarza, l’altro a Ploaghe. Una presenza insufficiente per un territorio vasto e con una popolazione distribuita in modo disomogeneo.
La carenza di personale medico rappresenta un ulteriore ostacolo. Quasi tutte le unità operative lamentano un organico inadeguato e, di conseguenza, i medici internisti non riescono più a dedicare tempo alla ricerca scientifica: il 50% afferma di non potervi più lavorare, mentre un altro terzo riesce a farne solo in parte.