Nel Montiferru fiamme alte 30 metri. “Così l’acqua dei Canadair evapora”

“Ci sono studi che hanno esaminato la soglia energetica oltre la quale l’effetto dei mezzi aerei non è più efficace.  Accade quando si superano i 10mila kilowatt per metro lineare di fiamme, che corrispondono a un’altezza tra i dodici e i quindici metri. Nel Montiferru, nei giorni scorsi, il fuoco ha raggiunto anche i trenta metri”. Giuseppe Mariano Delogu, capo del Corpo forestale sardo dal 2007 al 2009, lo spiega a Sardinia Post come fosse in una delle sue lezioni universitarie. Dettagli, numeri, esempi, ricostruzioni. Tasselli di un mosaico che il professore compone per spiegare come abbiano cambiato pelle i roghi nella Sardegna del Ventunesimo secolo. Delogu insegna Tecniche di protezione civile nella facoltà di Scienze forestali all’Università di Nuoro.

Professore, ventimila ettari andati in fumo in sessanta ore. Un decimo dell’Oristanese, provincia nella quale ricade il Montiferru.

Purtroppo non può succedere diversamente quando gli incendi, con la post modernità, sono diventati un problema sociale.

In che senso?

In tutto il mondo occidentale, non solo in Sardegna, i roghi non possono essere più una questione da relegare alle migliori tecnologie o da delegare unicamente a strutture specifiche come la Protezione civile. I roghi sono strettamente legati alla società, perché la gran parte dei fuochi che divampano sono di origine colposa e hanno a che fare con la sottovalutazione dei rischi di una determinata azione.

Cosa bisognerebbe fare?

È arrivato il tempo per cui ciascun cittadino si assuma una parte di responsabilità nel vivere civile. Quando parlo di sottovalutazione dei rischi, mi riferisco per esempio all’uso di una smerigliatrice nel giardino nella casa al mare, alla brace preparata in uno spuntino tra amici, alla mietitrebbiatrice usata in campagna. Basta questo per scatenare il disastro. Basta una scintilla. Nella percezione collettiva, invece, c’è ancora l’idea che dietro gli incendi ci siano le vendette commesse col fuoco in ambito rurale, per l’ignoranza dei pastori. Ma non è più così.

Il sociologo Nicolò Migheli, in un’intervista che il nostro giornale ha pubblicato ieri, ha spiegato proprio la trasformazione dei roghi nell’Isola, facendo notare tra le altre cose che è ormai residuale la percentuale degli incendi legati alla mano dei piromani.

Condivido l’analisi del sociologo su tutta la linea. Oggi gli incendi sono un problema sociale perché sempre di più implicano un contatto con le zone abitate e le attività economiche. Se la volontarietà del dare fuoco attiene più ad ambiti di disagio sociale, oggi è determinante una certa inconsapevolezza dei gesti quotidiani. Con sempre maggiore frequenza i roghi partono dalla porta di casa. O lì arrivano. Si aggiunga che in questo momento storico la società sta rinunciando a quelle forme di manutenzione del territorio che erano nel passato elementi di salvaguardia. Nelle strade rurali, ormai sommerse dai rovi, non si passa più come un tempo. Il problema esisteva già nel 1994, quando le fiamme corsero da Sassari a Valledoria bruciando 30mila ettari. Figuriamoci qual è la situazione attuale con lo spopolamento delle zone interne.

A chi spetta fare la manutenzione del territorio?

Prima se ne occupavano i pastori, che si muovevano a piedi e avevano sempre una roncola in mano. Oggi i nuovi allevatori seguono il gregge in suv o col pick up. Quella funzione di ‘pulizia’, costante e continua è venuta meno. Il risultato è che oggi non ci sono più fiamme di un metro, un metro e mezzo. Adesso raggiungono normalmente un’altezza di quindici metri. In queste condizioni anche dalla miglior macchina anti-incendio non può arrivare una risposta positiva. Quando il fuoco ha queste dimensioni, l’acqua lanciata dai mezzi aerei evapora prima di toccare terra. Prima di avere effetti sull’incendio stesso.

Così la politica si crogiola sul proprio lassismo.

Al contrario. Io penso che sia necessario, da oggi ai prossimi cinque anni, rivedere la struttura del Piano regionale anti-incendio, anche attraverso una nuova legge. Oggi il documento è un racconto asettico di quella che è la struttura di Protezione civile. Il Piano si limita a prevedere anche una serie di norme generiche, ma pensate per incendi di cinquant’anni fa.

Lo fa un esempio?

Tra le norme si contempla una fascia larga di tre metri nei bordi delle strade. Ma non sono nulla, tre metri. Questo, ripeto, andava bene mezzo secolo fa, quando una cicca lanciata dal finestrino di un’auto aveva una capacità ridotta di fare danni. Quei tre metri erano una soglia sufficiente per separare il mozzicone della sigaretta della vegetazione. Ma oggi, con le fiamme che arrivano a fare anche salti di cinquecento metri, bisogna mettere nero su bianco nuove disposizioni di prevenzione. Un buon esempio è il Codice civile francese che impone, per esempio, una fascia di salvaguardia di cinquanta metri intorno alle case. Ecco, questa comincia a essere una distanza utile.

Altra modifica da apportare al Piano regionale?

Non hanno più senso nemmeno le misure anti-incendio uguali in tutta l’Isola. Serve una zoomata a scala di paesaggio. Monte Grighine, Arci, Ortobene, per citare alcuni esempi, non hanno le stesse caratteristiche. Quindi non ha senso prevedere regole identiche. Con i piani di dettaglio a scala di paesaggio si può intervenire nei punti critici. Faccio un altro esempio: la pineta di Nuoro vicino all’ospedale San Francesco è indicata come zona rossa. Vuol dire che in caso di incendio, deve scattare l’ordine di evacuazione. Questo modo di agire non è il migliore perché si finisce per fare leva sulla vulnerabilità della zona e non si fa nulla per limitare il rischio. Serve un approccio differente. Una misura di prevenzione efficace è quella che riduce il pericolo. Le azioni integrate e concrete possono fare molto per contenere i danni.

Chi governa ripete sempre che il grande problema è l’assenza di risorse.

Non sempre sono necessari poderosi finanziamenti pubblici per mettere in sicurezza un territorio. In Catalogna, per esempio, hanno impiantato dei vigneti in prossimità dei boschi.

Perché la vite blocca il fuoco?

Le vigne curate sì. Questo è un esempio di eliminazione di pericolo. È nato addirittura un business. Un marchio. Il Vi Fumat. Significa vino al sapore di fumo. Lo stesso è successo con capre e pecore. Sempre in Catalogna ci sono le cosiddette Ramat de foc, le greggi del fuoco, ‘assunte’ per fare le sentinelle degli incendi. Pascolano lì. Noi dovremmo fare la stessa cosa, dando nuovo ruolo e rinnovata funzione al mondo agropastorale. Un’innovazione produttiva che andrebbe certificata, dal momento che crearebbe nel contempo una nuova cultura della prevenzione senza rinunciare a produrre reddito.

Tecnicamente come si fa la manutenzione di un bosco?

Non esiste una regola unica. Anche in questo caso non si tratta di seguire pedissequamente un manuale, non c’è una  pratica valida sempre e ovunque. A ogni passo, il tecnico forestale qualificato si accorge cosa dice il bosco. Ci si imbatte in caratteristiche che magari un metro primo non c’erano. La sensibilità professionale fa la differenza. In alcuni casi è necessario gestire il diradamento delle piante; in altri è importante selezionare gli alberi migliori o eliminare le piante morte, a meno che non servano per microfaune e per la vita degli insetti.

Il presidente Christian Solinas ha suggerito di utilizzare i soldi del Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza) per la lotta agli incendi.

Nella prima versione di Pnrr, quella con premier Giuseppe Conte, c’erano risorse in questo senso. Nel documento inviato a Bruxelles, invece, i fondi sono stati destinati alle foreste urbane, al rimboschimento delle città e ci si è dimenticati delle montagne. Parliamo di un miliardo di euro che nella versione di Conte avrebbe dovuto prevenire incendi e alluvioni. Nel documento del Governo di Mario Draghi ha prevalso la linea suggerita dall’architetto Stefano Boeri.

L’80 per cento dei Comuni sardi ha meno di cinquemila abitanti.

La Sardegna, che è terra rurale, ha bisogno di infrastrutture, di viabilità montana, di fasce parafuoco da realizzare non obbligatoriamente con le ruspe, ma per esempio attraverso il diradamento dei bosco, perché ci si possa entrare in caso di necessità. Personalmente credo che sia efficace il fuoco prescritto, ovvero un uso chirurgico delle fiamme per preparare il terreno a ricevere un incendio. Lo si dovrebbe fare prima dell’estate.  È una tecnica che costa pochissimo: 300 euro a ettaro. L’intervento con le ruspe si paga anche dai duemila ai tremila euro, sempre ogni diecimila metri quadrati. Il fuoco prescritto ha il vantaggio di sviluppare le fiamme dove vogliamo noi. Per ora lo sta usando in modo sperimentale il Corpo forestale, ma intravedo l’esigenza che pure l’agenzia Forestas lo introduca nella cura delle fasce perimetrali. In futuro anche le imprese private potrebbero farlo. Servono giovani preparati e formati. Serve un progetto. L’importante è avere in mente gli obiettivi che partono dall’azione preventiva dei nostri territori.

Chi obbliga i proprietari privati dei boschi ad accollarsi i costi della manutenzione?

In questo momento in Sardegna esiste un serio problema: non c’è più nemmeno l’impresa privata forestale che prima tagliava legna. Oggi vediamo solo la presenza di società con operai extracomunitari, per abbattere il costo del lavoro, e che non hanno interesse a curare il bosco. Piuttosto producono il cippato per le centrali a biomasse. Questa del legno ridotto in scaglie per fortuna non è una  pratica diffusa, anche perché toglie valore al bosco. In Sardegna, con le piante che abbiamo, si potrebbe produrre tavolame per fare mobili o anche le case, come nelle nuove tendenze. Il pinus radiata, col quale venne rimboschita l’Ogliastra ai tempi della cartiera di Arbatax, è un valore economico importante. Basta un ordine di grandezza: il cippato viene pagato un euro al quintale, il tavolame costa 20-30 volte di più. Questa sì che può essere un’opportunità serie di sviluppo economica. Ma bisogna incentivare la formazione e la certificazione.

Difficile ricordare una campagna elettorale in cui si sia parlato di anti-incendio.

La lotta al fuoco impone la necessità di avere una visione ampia che la politica non possiede. Si inseguono solo i ristori, che certamente sono sacrosanti: chi ha perso tutto o subìto danni, è indispensabile che venga messo nelle condizioni di ripartire. Ma poi serve progettualità, lo sviluppo economico non si costruisce dal nulla. Pensiamo anche a castagno, nocciolo e quercia da sughero, altra possibilità produttiva. Un istituto europeo ha premiato la Sardegna come una delle regioni forestali dell’Ue: non possiamo lasciare che i nostri boschi siano spazi occupati per abbandono e non produttivi. Si tratta di una crisi che va avanti dagli anni Cinquanta: prima la fuga dei cerealicoltori dalle campagne per il crollo del prezzo del grano. Poi è arrivata Ottana, col penoso esito che sappiamo. E qui chiudiamo il cerchio: i roghi sono un problema sociale perché si innescano dove c’è debolezza territoriale e mancanza di gestione.

Alessandra Carta
(@alessacart on Twitter)

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